Civiltà tradizionale e modernità

 

Civiltà tradizionale e modernità

La civiltà tradizionale era strutturata in riferimento alla verticalità, per cui ogni cosa era gerarchizzata verso l’alto: il potere non era mestiere o interesse, ma era legittimato da un ruolo di tramite tra la realtà celeste e quella terrena, secondo l’originario significato di pontifex.

La società era divisa in classi, ognuna con la propria dignità finché rispettava il proprio ordinamento che era un riflesso dell’ordine cosmico. Ogni riferimento alla verticalità è invece venuto meno tra le rovine della modernità, ogni riferimento a una realtà sovraordinata è negato, deriso, condannato: tutto deve essere collocato su di un piano orizzontale e per questo si temono – e perciò si negano – le differenze.

Ma come già sapeva Nietzsche, la lotta per l’uguaglianza dei diritti è già un sintomo di malattia, perché proprio di chi non sente in sé la forza di elevarsi e vuole che tutto sia uguale in modo che la propria mediocrità non si evidenzi. Tuttavia, privato di ogni superiore punto di riferimento, l’individuo perde ogni centro e diventa atomo che vortica, come diceva Democrito, senza scopo; diventa una realtà scissa, dimidiata e quindi irrealizzata e inevitabilmente infelice.

L’infelicità è, con tutta evidenza, la malattia della modernità che ha rinnegato le proprie radici. Il fatto è che se l’uomo guarda verso il basso, piuttosto che verso l’alto, decade: è il mito degli angeli ribelli. È il mito della biga alata del Fedro di Platone, dove il predominio dei puri istinti e delle passioni non sottomesse alla ragione, l’odierna anarchia dei desideri, porta l’anima a precipitare verso il basso e a perdere la dimensione celeste.

È la situazione nella quale l’uomo si ribella ai valori eroici del sacrificio e guarda verso il basso, verso il puro appagamento degli istinti, verso la quantità rifiutando la qualità, verso la materia rifiutando lo spirito. Nel mondo materializzato, dove si considera scientifico, “reale”, solo ciò che è misurabile e quindi ridotto o riducibile a quantità, domina la demonia del denaro che è il regno della quantità, come dimostra il fatto che nella degenerazione attuale –  lontana da una certa dignità che poteva avere ancora l’homo oeconomicus  – il valore dell’uomo è misurato dalla quantità di denaro che possiede e nemmeno dal fatto di averlo guadagnato con fatica, onestà e ingegno.

Occorre quindi una reintegrazione, una ricostruzione di una dimensione interiore rivolta verso l’alto; occorre vincere il grande jihad affinché la dimensione politica sia reintegrata del suo elemento essenziale: la cura della comunità per assicurarle il futuro.

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