Scuola di Pensiero Forte [17]: la socialità sta alla base del vivere politico
Quasi tutte le concezioni etiche che la Storia ha conosciuto hanno ammesso che il bene umano è un bene di natura sociale. Questa constatazione, ovvia ma mai abbastanza approfondita, deriva da un dato di fatto lampante, che J. Rawls chiamava “circostanza di giustizia”: la cooperazione tra gli uomini rende possibile a ciascuna una vita migliore.
Già abbiamo detto come l’uomo sia un essere sociale (lo zoon politikon di cui parlava Aristotele); dobbiamo capire che valore ha questa socialità per il conseguimento del fine politico.
San Tommaso d’Aquino scriveva che senza questi rapporti, l’essere umano non potrebbe né soddisfare le proprie necessità fisiche più elementari né, a livello più profondo, perfezionare la propria razionalità per essere “in grado di scoprire le singole cose di cui l’umana esistenza ha bisogno” (De regno I,1). Aristotele non mancava di ribadire in più scritti che “gli uomini, anche se non hanno bisogno di aiuto reciproco, desiderano nondimeno vivere insieme” (Politica II, 6), e ancor più chiaramente sempre l’Aquinate scriveva che “l’esistenza associata, quale si realizza nella comunità della vita politica, è fonte di enormi vantaggi” e gli uomini, “in virtù della loro natura sociale o politica, sono portati a vivere insieme e non da isolati, quand’anche uno non avesse bisogno dell’altro per realizzare una vita politica” (In III Pol. 5).
Nella società odierna, l’interdipendenza etica è vista come una mera necessità riguardante esclusivamente i mezzi: “tu” sei un rivale, o un mezzo stesso del mio interesse, o l’oggetto su cui ricade parte dell’effetto del mio agire. La collaborazione fra gli individui viene mutuata in vista del soddisfacimento dei propri desideri e di altre necessità ordinarie, più o meno valide, quasi certamente destinate a se stesse.
C’è una netta esclusione dell’ordine dei fini, per cui la persona non viene vissuta come tale, nella sua identità unica e trascendente, riconoscendone e promuovendone il fino ultimo, ma lasciata, come dicevamo pocanzi, ad essere una cifra nell’equazione dell’economicismo dell’ego.
Comprendiamo dunque che, nel pensiero classico, la vita buona non è un mero bene sociale o comune in quanto strumentale agli uomini, bensì è un fine cui la socialità umana tende per sua natura e nel quale la persona si realizza singolarmente e come comunità.
A questa concezione forte del bene comune e alla naturale socialità dell’uomo, si ricollega il principio personalista, in base al quale una persona vive bene (=raggiunge la felicità) nella misura in cui rispetti e promuova l’altro.
Nel momento in cui io mi decentro da me stesso e considero il mio prossimo, è allora che compio un’azione politica buona, perché tendo a realizzare il bene comune.
Due sensi possiamo scorgere in questo principio: uno attivo, secondo il quale “il mio bene è che tu realizzi il tuo bene”, e da qui nascono i doveri civili; uno passivo, cioè “il tuo bene è che io realizzi il mio bene”, da cui traiamo i diritti.
Senza inquadrare adeguatamente l’essenzialità dello spirito sociale umano, non possiamo identificare le fondamenta forti del pensiero politico. Prossimamente cercheremo di spiegare cosa sono i doveri e i diritti e la loro importanza per l’ideale pratico della politica buona.