Il viaggio di Salvini in Israele offre l’occasione per affrontare un tema controverso e fin troppo spesso bistrattato da una parte o dall’altra, anteponendo l’ideologia alla realtà: quello del sionismo, che cercheremo ora di trattare con la massima oggettività possibile. Infatti, in area nazionalpopolare, anche per reazione a due secoli di letteratura sul complotto ebraico, si fa strada l’idea che abbia poco senso in realtà prendere una posizione netta riguardo al sionismo, e che il conflitto israelo-palestinese sia, al più, una questione regionale, specie considerando la scarsa efficacia della dirigenza palestinese e i suoi legami con l’islamismo eversivo protagonista delle cosiddette “Primavere Arabe”.
Prima di tutto, occorre una breve premessa su cosa sia il sionismo: esso nasce nel XIX secolo dall’applicazione al peculiare mondo ebraico della moderna ideologia nazionalista. Si è sviluppato secondo differenti tendenze, influenzate dalle altre ideologie contemporanee: dal sionismo religioso, più o meno ortodosso, a quello nazionalista laico, fino a quello laburista o socialista, o addirittura vicino al fascismo. Il sionismo eredita dalla cultura ebraica alcuni aspetti problematici, come la tendenza all’esclusivismo tribale, all’etnocentrismo radicale, e a una teleologia politica di stampo messianico. Questi a loro volta sono propri di una storia segnata dalle persecuzioni e dallo status di minoranza etnoculturale e religiosa in un ambiente più o meno ostile.
Tutto il sionismo è perciò strettamente legato all’esistenza di uno Stato, Israele, finalizzato a difendere il popolo ebraico contro i nemici che ne vorrebbero l’annientamento. In un senso più ampio, possiamo definire sionista anche chi, pur condannando e criticando i crimini israeliani, sostiene comunque l’esistenza di Israele come Stato etnico ebraico indipendente. I sionisti hanno storicamente sempre effettuato pressioni sulle comunità ebraiche per compattarne il sostegno a Israele, facendo leva sul pericolo, non di rado reale, dell’antisemitismo. Dopo la fondazione di Israele, si può dire che il sionismo abbia ottenuto la piena egemonia politica sul mondo ebraico, emarginando le voci dissidenti ed effettuando una grande influenza anche sui non-ebrei, attraverso la propria stessa alleanza con la causa occidentalista e atlantista, grazie anche ai comuni aspetti ideologici con l’imperialismo statunitense, fortemente segnato dalle interpretazioni giudaizzanti e veterotestamentarie del cristianesimo.
Quest’ultimo punto già dovrebbe essere sufficiente a giustificare l’opposizione al sionismo, in quanto alleato degli Stati Uniti, con un ruolo ampiamente autonomo di “sentinella d’Occidente” in Medio Oriente. A questo si aggiunge la motivazione ideale, per cui essere genuinamente anti-imperialisti implica anche opporsi all’imperialismo sionista ai danni dei Palestinesi, i crimini del quale non cessano di susseguirsi giorno dopo giorno. Tuttavia, è qui il caso di mettere in luce due aspetti più propriamente pragmatici che costituiscono motivazioni importanti per continuare ad attribuire importanza al problema sionista.
In primo luogo, l’occupazione della Palestina da parte d’Israele pone lo Stato ebraico in una situazione di potenziale ostilità con le popolazioni arabe e islamiche della regione. Se mai gli Stati arabi fossero in una situazione di pace e di stabilità, o addirittura di unione sovranazionale, come era stato proposto dai panarabisti, la stessa sopravvivenza d’Israele potrebbe essere messa a rischio. Per questo, è negli interessi di Tel Aviv, che l’area continui ad essere destabilizzata e che gli Stati ostili, come la Siria, siano messi nelle condizioni di non nuocere. Influenti analisti e politici israeliani, non a caso, hanno ammesso come l’ISIS sia tutto sommato meno peggiore rispetto all’Iran. Invece, per noi Europei è conveniente che la regione del Levante e del Nord Africa sia stabile e amministrata da regimi nazionalisti laici, i quali blocchino i flussi migratori e si aprano a commercio e investimenti, sul modello di quanto avveniva, ad esempio tra l’Italia e la Giamahiria libica.
In secondo luogo, le comunità ebraiche in Europa, specie in alcuni Paesi, pongono un problema di conflitto d’interessi tra la propria identità etno-religiosa e il proprio status di cittadini dei vari Paesi. Senza riesumare deprecabili stereotipi antisemiti, è un dato di fatto che le comunità ebraiche organizzate appoggino fortemente Israele, agendo come gruppi di pressione e centrali d’intelligence, anche ai danni degli stessi Stati ospiti. Inoltre, comprensibilmente, vista la loro condizione di minoranza e le persecuzioni antiebraiche avvenute in passato, le comunità ebraiche vedono di cattivo occhio qualsiasi movimento politico, che si proponga di cambiare l’ordinamento politico liberale e riappropriarsi della piena sovranità del proprio Paese, a maggior ragione se di tendenza nazionalista.
Ora, questi problemi non dipendono da una presunta perfidia giudaica, bensì dagli interessi politici sionisti. È quindi giusto dialogare da pari a pari con Israele e con le comunità ebraiche, come fa ad esempio Putin, ma senza alcuna sudditanza psicologica. Soprattutto, occorre tenere presente come gli obiettivi dei patrioti europei siano in contrasto con quelli del sionismo, e quindi anche da una prospettiva di Realpolitik non si possa fare a meno di contrastare questa ideologia politica e i gruppi che la portano avanti, sempre evitando però di scadere nel complottismo o nell’odio etnico o religioso.