L’eredità di Roma [4]

 

L’eredità di Roma [4]

Quando Romolo traccia il solco dei confini della Città, non vuole solo recintare materialmente uno spazio, ma vuole dividere due mondi, vuole edificare un tempio che contiene e diffonde un insieme di valori e di ideali senza i quali Giove ritirerebbe il suo favore e priverebbe Roma del suo imperium. Nel realizzare questo mondo, il romano è cosciente di appartenere a una stirpe non solo e non tanto del sangue, ma dello spirito.

Non politica, solo, ma fede e da fede viene fidelitas che motiva il comportamento del romano nella vita privata e pubblica, che si fonda sulla coscienza del dovere che lega il popolo ai suoi capi. A suggello della fides c’è la virtus che non va intesa come virtù nel senso moralistico, né solo come coraggio che ne costituisce piuttosto una delle manifestazioni. Cicerone distingue, infatti, tra virtus animi e virtus corporis; virtutes per il filosofo sono la modestia, la temperanza e la giustizia, mentre coraggio e fermezza sono virtutes richieste in ogni istante alla vita e non solo sul campo di battaglia.

La virtus garantisce la sopravvivenza nel ricordo dei posteri; costituisce la memoria che è doveroso conservare perché costituisca esempio di grandi cose e pungolo alla realizzazione di altrettante. A differenza di greci ed etruschi, i romani non ebbero mai una concezione fatalistica del divino, come la Tuche, l’Ananke; per loro il favore divino agisce solo in presenza di qualità etiche che lo rendono possibile. Si può misurare la distanza dell’odierna civiltà in fase di autodissoluzione con il mondo romano; mentre i fenomeni storici attuali sono considerati inevitabili dal pensiero politicamente corretto – giocando su quell’inerzia spirituale che è stata spesso caratteristica di un popolo, come quello italiano, abituato da secoli a cambiare padrone e adeguarsi – Roma ci insegna che la storia è opera umana che incontra, se rettamente perseguita, il favore divino. Non rinuncia, ma lotta; non adeguazione a qualcosa di esterno avvertito come ineluttabile, ma contrapposizione al destino e uscita dalla vita se questa lotta si avvia alla sconfitta.

È questa del resto la magnanimità, la magnitudo animi, che si esprime attraverso la fermezza, cioè l’incrollabilità di fronte alle situazioni più disperate e alle avversità. Ultima virtù è la clementia, la serena indulgenza che si esprime nella capacità di non cadere nell’atrocitas, nella crudelitas. Cosicché, quando Augusto nella Curia Iulia del Foro ricevette dal Senato uno scudo con incise le quattro virtù che gli venivano riconosciute – virtus, clementia, iustitia, pietas –, queste non andavano a definire solo l’ideale del princeps, ma quelle del civis romanus.

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