APPROFONDIMENTI: più Stato, meno mercato!

 

APPROFONDIMENTI: più Stato, meno mercato!

Più Stato, meno mercato. E’ arrivato il momento di proclamarlo alto e forte, adesso che la tragedia del ponte di Genova ha smascherato definitivamente il disgustoso intreccio di potere celato dietro le privatizzazioni degli anni 90 e 2000, premessa indispensabile per lo smantellamento dello Stato, della sua sovranità, della sua capacità di controllo a favore di monopoli privati assai più potenti di quelli pubblici, deprecati per decenni dagli adoratori del mercato. Dietro le bare dei morti, le sofferenze dei vivi e il naufragio dell’economia di una regione intera, il popolo italiano ha potuto vedere l’inganno in cui è stato tenuto per oltre un quarto di secolo, da quel fatidico 1992 che mutò per sempre, in peggio, le sorti della nazione italiana e della repubblica. Svendite, conflitti di interessi, porte girevoli negli incarichi che contano, ex ministri e membri di istituzioni di garanzia (Severino, Flick) membri del collegio difensivo di Autostrade/ Benetton.

Più Stato, meno mercato se vogliamo sopravvivere come nazione e se teniamo a comandare in casa nostra. L’operazione viene da lontano, dagli anni 80, allorché Reagan in America e Margaret Thatcher in Inghilterra chiusero definitivamente la stagione dello stato sociale, dell’accordo interclassista che aveva diffuso benessere, costruito e distribuito ricchezza. Gli economisti li chiamano i “trenta gloriosi”, dalla fine della guerra mondiale alla rivincita neoliberista.

In Italia, la data fatidica è il 1992. Fu l’anno di Mani Pulite, la torbida operazione con la quale venne abbattuta selettivamente la classe politica per sostituirla con i funzionari della finanza e delle istituzioni transnazionali, ma anche il periodo degli attentati contro Falcone e Borsellino, del forsennato attacco speculativo di Soros e colleghi contro la lira, la folle resistenza di Ciampi che dilapidò le riserve della banca centrale ( errore imperdonabile o operazione a tavolino per indebolire lo Stato ?), del primo governo dei competenti e illuminati, con Giuliano Amato, la manovra “lacrime e sangue “ da 92 miliardi, la rapina notturna del 6 per mille sui conti correnti di tutti noi.

Fu anche l’anno della frettolosa approvazione del Trattato di Maastricht che ci avrebbe consegnati alla dittatura europoide e alla perdita della sovranità economica e monetaria e della riunione sul panfilo Britannia in cui i rappresentanti della finanza angloamericana, reduci dall’avere spolpato la Gran Bretagna nel decennio precedente ( British Petroleum, le compagnie del gas e dell’acqua, le ferrovie , l’industria militare Vickers), concordarono le privatizzazioni italiane con un grumo di dirigenti italiani, i  vertici del ministero del Tesoro , di Eni, Iri, Agip, Generali, banchieri come Bazoli, un giovane Mario Draghi, e dulcis in fundo, la società Autostrade non ancora ceduta a Benetton. Fu la svendita a prezzi di saldo dell’intero sistema bancario, con la conseguenza immediata della perdita del controllo di Bankitalia, la cessione con effetto domino dei gioielli di famiglia, pagati con il lavoro di generazioni di italiani. Passarono di mano la chimica, la siderurgia, l’agroalimentare, si fecero a spezzatino e poi si chiusero aziende che avevano reso grande l’Italia, furono cedute molte infrastrutture e tanto altro. Da ultimo, si permise, – è il mercato, perbacco – la sostanziale uscita della Fiat dall’Italia, un’azienda che moltissimo ebbe dalla nostra nazione per decenni, il denaro di tutti e il sudore di molti.

L’elenco occuperebbe molte pagine, la giustificazione ad uso del popolo risibile, ma creduta per ripetizione. Si trattava, dissero, di sottrarre allo Stato compiti non suoi, fu citato fino alla nausea il caso dei panettoni di Stato, poiché Motta e Alemagna furono salvate dalla chiusura dall’Efim. Sulla scia dell’indignazione a comando per lo Stato pasticciere, spiegarono senza vergogna e senza nemmeno un tremolio della voce che le privatizzazioni, oltre a renderci più “moderni”, “efficienti” e, guarda un po’, più europei, avrebbero abbassato il debito pubblico. La menzogna è sotto gli occhi di tutti, il debito ha continuato a crescere per la logica aritmetica degli interessi e comunque era del tutto sostenibile sino a quando i soliti noti (Ciampi e l’economista democristiano Andreatta, maestro di Prodi) non imposero con una semplice lettera d’intenti, alle spalle del parlamento, del governo stesso e del popolo teoricamente sovrano, il cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia.

Le mitizzate “autorità monetarie”, da allora, poterono determinare autonomamente il tasso di sconto e non furono più tenute all’acquisto delle eventuali parti invendute dei titoli pubblici emessi. Tombola, anzi scacco matto allo Stato, alla repubblica, al popolo italiano. In epoche più serie i responsabili sarebbero stati accusati di alto tradimento, qui hanno ricoperto i massimi incarichi privati e pubblici, fino agli uffici di primo ministro e capo dello Stato. Non dimentichiamo il tremendo colpo inferto all’economia reale, ai risparmiatori e ai contribuenti dall’ex pioniere dell’Unione Sovietica Massimo D’Alema nel 1999, il cui governo cancellò, sulla scia di analoga decisione del democratico progressista Bill Clinton, la distinzione tra banche di deposito e prestito e banche speculative d’affari. Era un’architrave delle leggi bancarie italiane del 1926 e 1936, imitate da Roosevelt nel famoso Glass Steagall Act. La sua abolizione aprì la via al potere assoluto della finanza che ha condotto alla crisi del 2007-2008 ancora in atto.

La privatizzazione del mondo procede a tappe forzate dal 1980, ha aumentato la sua velocità dopo il 1989, crollo del Muro di Berlino e il 1991, fine definitiva del comunismo reale novecentesco con la dissoluzione e lo smembramento dell’Unione Sovietica, è diventato l’unico motore della storia a partire dalle decisioni liberalizzatrici del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) intorno al 2000 e della marcia sin qui inarrestabile della globalizzazione. Noi preferiamo il termine mondialismo, che richiama l’idea di un potere che si considera unico, definitivo. Un nuovo millenarismo, al posto di quelli falliti nel secolo XX.

L’edificio, tuttavia, scricchiola. Il fallimento del comunismo non ha significato la vittoria liberale per manifesta superiorità, ma ha consentito al liberalcapitalismo di espandersi come un rizoma per mancanza di qualunque alternativa. Il mito del mercato ha invaso le nostre coscienze, colonizzato l’immaginario di due generazioni, ma è agli sgoccioli. Ormai ne è dimostrata l’infondatezza sulla base del precetto evangelico: dai frutti li riconoscerete. I frutti della privatizzazione del mondo, del potere assoluto della finanza e della tecnologia informatica che la sostiene sono l’impoverimento di enormi masse umane, l’aumento impressionante del divario di ricchezza tra minoranze piccolissime e il resto dell’umanità, le migrazioni imposte dal modello dominante, l’insicurezza quotidiana, l’impotenza manifesta di qualunque potere pubblico dinanzi ai mezzi, ai fini, alle tecnologie possedute da un pugno di oligarchi privati.

Sconcertante è dover difendere la proprietà e l’iniziativa privata non dai collettivisti, ma dei liberisti, per i quali essa significa esclusivamente la possibilità di possedere tutto, scacciando dal mercato-mito ogni concorrente, in assenza di controllo, bilanciamento da parte di autorità pubbliche, difesa dei popoli. Dinanzi a ciò, il ritardo accumulato dalle forze ribelli è grave e persino drammatico. Pure, da alcuni anni, è risorto un dibattito che ha ripreso a chiedersi, dati e statistiche alla mano, le armi preferite dall’avversario, se davvero privato è bello, se la gestione pubblica sia sempre e davvero fallimentare, a paragone delle magnifiche sorti e progressive del monopolio, se veramente il mercato realizza quell’ “ottimo paretiano” di cui si vanta, ovvero la migliore allocazione delle risorse. Soprattutto, si avverte la morsa totalitaria di nuovi iperpadroni. Non c’è parlamento, Stato o unione di Stati che sappia difendere l’uomo comune dal potere globale.

Il caso delle autostrade è paradigmatico. Governi collusi hanno offerto un monopolio naturale a un concessionario privato, un gruppo straricco, campione di delocalizzazioni e di campagne pubblicitarie mondialiste, Benetton. Insieme con Autogrill, dove si spende molto per mangiar male, ha acquisito Autostrade a un prezzo tutto sommato modesto, con dirigenti dell’Iri venditore compresi nel pacchetto, tipo Gian Maria Gros Pietro, ora banchiere. Praticamente, Autostrade è un bancomat che incassa contanti ogni secondo, in cambio di una manutenzione di cui abbiamo verificato il livello e di nessuna politica industriale. Qualcuno, finalmente, ha cominciato a chiedere la rinazionalizzazione della maggiore infrastruttura stradale dello Stato, realizzata con il denaro delle nostre tasse e i risparmi di milioni di famiglie affidati al Tesoro pubblico.

Quest’anno si assiste a un revival di studi sul pensiero di Karl Marx, nel secondo centenario della nascita. Come ha detto Alain De Benoist, insospettabile di simpatie marxiste, l’autore del Capitale e del Manifesto diffuse una visione della storia che degrada l’uomo, ma sull’economia e sulla natura profonda del capitalismo ha ancora molto da dirci. Perciò temiamo che forme nuove di collettivismo tornino ad affascinare i popoli per colpa del disumano sistema neoliberale privatistico. Del resto, già nel XIX secolo, il socialismo umanitario e utopistico, e successivamente il marxismo, nella sua pretesa “scientifica” di religione secolarizzata, sorsero come reazione a ingiustizie sanguinose, vite indegne di essere vissute tra sfruttamento, povertà e degrado delle prime industrializzazioni.

Secondo Pierre Drieu La Rochelle il vero intellettuale è colui che si trova oggi sulle posizioni che gli altri assumeranno domani.  Per questo, osiamo affermare che occorre più Stato, in Italia e dappertutto, e meno mercato. Fissare alcuni punti fermi è essenziale; il primo riguarda il rifiuto del collettivismo. Non possiamo ricadere nella brace della proprietà statale di ogni mezzo di produzione per sfuggire alla padella del monopolio dei trust multinazionali e della finanza onnipotente. L’altro attiene ai mezzi: un’idea sovranista concreta, realista, in grado di mobilitare milioni di persone, deve indicare alcuni punti fermi. Il più semplice, da noi, è esigere il rispetto della costituzione, in particolare del Titolo I, i principi fondamentali, tra i quali la sovranità popolare, la dignità sociale e personale del lavoro, e del titolo III, i rapporti economici, gli articoli da 35 al 47.

Basta una lettura sommaria per rendersi conto di quanto siano disattesi e come l’ordinamento europeo a cui ci siamo sovraordinati confligga con le regole costituzionali. Il Trattato di Maastricht, oltre a sottrarci la sovranità monetaria a favore della banca centrale, ha un impianto ideologico neoliberale opposto ai principi della nostra carta. Gli strumenti sono dunque già presenti nell’ordinamento, occorre imporne il ripristino. L’intendenza, come diceva Napoleone, seguirà, nel senso che verranno poi individuati i meccanismi giuridici, finanziari, organizzativi per restituire allo Stato i propri poteri.

Esistono dei monopoli naturali e dei beni comuni. Quella è la cornice, la linea del Piave. Non è possibile privatizzare l’acqua- un’operazione che grida vendetta – ma neppure ignorare che la distribuzione del gas, dell’energia elettrica, la ricerca relativa alle fonti di approvvigionamento e in generale la politica energetica devono essere riportate saldamente nelle mani dello Stato.  Allo stesso modo, è inconcepibile che le reti di telecomunicazione – le più potenti e strategiche infrastrutture moderne– non siano controllati rigidamente dal potere pubblico, per evidenti motivi di sicurezza nazionale. L’intera ricerca tecnologica e industriale deve essere oggetto di supervisione statale.

Non si può immaginare il futuro delle banche senza ripristinare la distinzione tra attività speculativa e esercizio del credito alle imprese e ai privati; almeno una grande banca pubblica è necessaria all’Italia. Abbiamo, in parte, Cassa Depositi e Prestiti, ma non basta. Keynes non è tramontato, un istituto pubblico volto agli investimenti infrastrutturali a lungo termine si impone e basta guardare al resto d’Europa per trovare esempi e modelli. Altrettanto urgente è individuare i settori o le singole imprese strategiche per l’interesse nazionale, imponendo forme di gestione condivisa sino alla nazionalizzazione. I casi Alitalia e Ilva sono ancora aperti, a dimostrazione dell’assenza di qualsiasi politica industriale.

Le responsabilità dei due grandi schieramenti che hanno egemonizzato l’opinione pubblica per un quarto di secolo, dopo il fatale 1992, sono immense. La sinistra ha tradito spudoratamente i propri ceti di riferimento nonché le parole d’ ordine di oltre un secolo, la destra – se si può parlare di destra politica in Italia – si è accucciata servizievole ai piedi degli interessi privati di un singolo, omettendo di esprimere iniziative e idee diverse dal vangelo neoliberale officiato dalle centrali che contano, le stesse che rilasciano o ritirano i patentini di democrazia, affidabilità, attitudine a governare eccetera eccetera.

Il più grande obiettivo cui tendere, il punto d’arrivo di ogni politica è il recupero della sovranità monetaria, l’abolizione del pareggio di bilancio, l’esigenza che la banca centrale ridiventi prestatrice di ultima istanza, tagliando le unghie alla speculazione sullo Stato sovrano e torni in mani italiane, come è previsto da una delle tante leggi inapplicate, carta straccia di fronte ai potenti, ossia la legge 262 del 2005 che prevede la proprietà pubblica della Banca d’Italia. Al di fuori di questa battaglia, anche l’eventualità di un ritorno alla lira diventa una disputa da bar dello Sport. Chi controlla la moneta, chi la possiede e la emette – la BCE ma anche la Banca d’Italia privata – decide la musica e sceglie i suonatori, al di là della valuta che utilizza.     

Il ritardo della sinistra su questi temi è colossale, come l’inadeguatezza del M5S e il silenzio imbarazzato dei cosiddetti moderati. Agì paradossalmente con maggiore libertà il defunto MSI, che mantenne sempre la sua pregiudiziale di alternativa al sistema, fondò un sindacato nazionale e elaborò idee, progetti, leggi economiche con l’ausilio dell’Istituto di Studi Corporativi. Alla radice di tutto viveva un’idea-forza, la sovranità del popolo attraverso lo Stato.

Sovranità significa primato della politica, dello spazio pubblico e del bene comune, sull’economia, la finanza, i potentati privati. Il mercato torni uno strumento, il luogo di incontro di interessi mediati dallo Stato. Fuori gli speculatori, gli iperpadroni, dai beni comuni, dai monopoli naturali, dall’interesse nazionale. Su tutto, un programma difficile da enunciare da almeno trent’anni, ancora più arduo da concretizzare, a cui non esiste alternativa per il nostro e per gli altri popoli: più Stato, meno mercato.

                                         

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