Una memoria sospesa sull’ombelico della Valpolcevera è il ponte Piano, su quel cuore affetto da annosa tachicardia fino all’infarto del 14 agosto, occorre operare in fretta, applicare un by pass di cemento perché Genova non muoia. Il crack di quella campata del ponte Morandi ha spezzato 43 vittime innocenti, un orrore tutto italiano perché evitabile, ma oltre al sangue sparso nelle macerie, la città ora si trova paralizzata rischiando il black out economico sposato al caos del traffico. Di già altri porti s’ offrono “generosi” sussidiari alla circolazione delle merci, gli sciacalli non sono solo quelli da acciuffare negli appartamenti dei seicento sfollati. Il lavoro è immenso, la porzione di campata a mensola volante scricchiola, gli stralli faticano a tenerla, occorre scongiurare nuovi crolli rovinosi su case, capannoni, linea ferroviaria, altri blocchi di c.a. a far da diga innaturale alle acque del torrente Polcevera, un disastro da codice rosso.
Il sen. arch. Renzo Piano lancia un’idea, porta un dono alla sua città natale, lui ch’è natio di Pegli quartiere di ponente, se fosse uno dei Magi sarebbe Gaspare che offre la mirra, il suo è il gesto nobile d’un medico che accorre sulla ferita aperta con l’odorosa resina per cicatrizzarla. Il pacco coi disegni viene scaricato in Regione, flash di fotografi, telecamere, veline dei TG, commenti entusiasti di G. Toti, grande curiosità per l’idea d’ un architetto a cinque stelle con in bacheca alte e meritate onorificenze, compresa la napolitana nomina a senatore a vita, da suscitare invidia in una categoria afflitta da crisi esistenziale. Mentre Autostrade Benetton e Fincantieri dovrebbero ricostruire l’arteria aprendo ben bene, la prima, la borsa, la seconda i cantieri ( ma la legge non prevede una regolare gara d’appalto?), nel fumo fitto del bla, bla politico, con la magistrature che cerca prove del disastro per dare identità ai colpevoli, beh l’ottantunenne architetto ha acceso una luce, anzi ha spento il vocio tedioso del gallinaio, diradato la nebbia e buttata lì sul tavolo una “cosa” concreta sulla quale confrontarsi, lavorare.
Un ponte tradizionale il suo, diremmo romano per ingegneria, seppure senza le onde degli archi, un nastro lungo senza strutture di stralli sovrastanti, semplice, lineare, votato a infondere sicurezza per la sua funzione, piloni in cemento armato, rastremati in basso come prue, a sostenere campate di luce contenuta, ritmo nella simmetria dei “telamoni” portanti, salvo che nel tratto del ponte, 43 lampioni a ricordare le vittime di quel maledetto 14 agosto. E’un idea, un’intuizione o meglio una provocazione ai tanti figuranti ad abbassar la voce, usando gli strumenti solo per fare un’orchestra, suonare per restituire serenità ad una comunità coperta da vecchie e nuove ferite. Professionalmente il ponte Piano vuol fare questo, restituire fiducia, scacciando le streghe della paura, un ponte calmo, solido, affidabile, ma anche aorta che pompa riqualificazione a doppia u, urbanistica e umanistica.
Certo leggendo lo stile Piano, denso di note d’alta tecnologia, dove la soluzione cutting-edge (tecnologia d’avanguardia) è morfologia estetica, basti cliccare sulle sue opere sparse in tutto il mondo, si resta perplessi, ma quella purezza dell’idea ha già raccolto i primi applausi dai palchi, gli ohhh! degli addetti, a vario titolo, alla ricostruzione. Ci viene in mente un grande architetto tenuto in naftalina per il suo trascorso “in nero”, Adalberto Libera, grande sarto nel cucire la tradizione al nuovo, il guardaroba di un nobile, invidiato passato, al pulsare vorticoso del razionalismo moderno, il risultato fu cogliere la farfalla dell’eterno con la retina della tecnica d’avanguardia.
Così chiediamo alle “agitate” menti, alla Telemaco Signorini, colte da febbre alta nel cercare soluzioni: ma chi può dire, con un minimo di ragioni, che la risoluzione della vecchia equazione della retta non sia bella quanto la Nike di Samotracia, una vecchio nodo da marinaio che Piano sembra aver sciolto, perciò datevi da fare.