La fine di un sogno

 

La fine di un sogno

L’età degli Dei da lunga data è volta al tramonto – il pagus il bosco i monti sono stati violati anch’essi; fu solo dunque scempio di carni lacerate e infamia inenarrabile. Il tragico destino delle popolazioni indiane del Nord America si compiva il 29 dicembre del 1890 a Wounded Knee nel South Dakota. La ‘follia del Messia’ venne chiamata la disperazione e la fierezza mai doma, la vana speranza di una palingenesi. Che spinse gli ultimi nativi a lanciarsi contro i proiettili, le sciabole e baionette, confidando nella invulnerabilità promessa loro dal Grande Spirito. Nella notte, intorno a grandi roghi, la danza ritmata al suono dei tamburi e le evocazioni degli sciamani. Inutile richiamo al Sacro. Come angeli caduti le ali tarpate.                                                                                  

 Così rammemora Alce nero (dal libro a cura di John G. Neihardt, edito da Adelphi): “Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando guardo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, ancora vedo le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone o a zig-zag, chiaramente come li vidi con i miei occhi da giovane. E posso vedere che con loro morì un’altra cosa, lassù, sulla neve insanguinata, e rimasta sepolta sotto la tormenta. Lassù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno… perché il cerchio della nazione è rotto e i suoi frammenti sono sparsi. Il cerchio non ha più centro, e l’albero sacro è morto”.                   

Il cinema Cristallo si trovava nei pressi del vecchio distretto militare di via Sforza e il palazzo austero, con colonne e alti soffitti, dove sono nato e vissuto fino all’autunno del 2009 (tranne i periodi del mio inquieto peregrinare e gli anni trascorsi a misurare tre metri per sei nelle celle di Regina Coeli). Una sala modesta frequentata da soldati in libera uscita giovani domestiche civettuole e una masnada di ragazzini – fra cui le mie sorelle ed io – con la merenda in tasca. Scorpacciata di film western, anni ’50, con gli eroi, “tutti giovani e belli”, cow-boys o in giacca blu contro selvaggi urlanti e brutti stupidi cattivi. Pur in numero superiore rigorosamente perdenti. Ecco il suono della tromba annunciare l’arrivo dei “nostri”, il vessillo (sempre quello, va da sé, prima che i suoi venissero presi a calci in culo e tosati a Little Big Horn!)  al vento del Settimo cavalleggeri, le sciabole luccicanti al sole e gli indiani, sfigati, a cadere da cavallo… allora scattava l’applauso della platea, inconsapevolmente servili verso quei “liberatori” che, ancora, spadroneggiavano – l’avrebbero fatto negli anni successivi ed oggi – sul suolo e nei cieli del nostro paese.                                                                                 

Eppure io restavo al mio posto, scontroso e scontento. C’era in me un senso ostile di inappagato di falso di confusa ricerca d’altro. Prima che, al cinema, anni ’70, Indians e Piccolo grande uomo e Soldato blu – in modo alquanto stucchevole proponessero, pur con schema rovesciato, ma sempre i buoni e i cattivi a tutto tondo. Intanto, tra i romanzi di Salgari le avventure del Coyote i fumetti di Pecos Bill, m’ero “innamorato” di quello squadrone sudista che aveva soccorso e arruolato come trombettiere un ragazzino indiano, Oklahoma Jim, imponendomi d’essere da allora fedele e ostinato alla “nobiltà della sconfitta”… E consapevole come, quando gli dei si ritirano la terra arida fredde le stelle, rimane pur sempre il compito d’essere testimoni o, immagine cara ad Oswald Spengler, simile a quel soldato romano che, durante l’eruzione del Vesuvio a Pompei, non abbandonò il suo posto per non venire meno alla consegna.

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