Il sorriso di Sisifo

 

Il sorriso di Sisifo

Mattina fredda e nebbiosa, 4 gennaio 1960, la macchina sbanda e si schianta contro un albero. A cento chilometri da Parigi, su un rettilineo. Muoiono l’editore Gallimard e il filosofo Albert Camus. La tesi dell’incidente è accettata acriticamente. Non vale la pena ricordare il suo anticomunismo, l’attacco all’URSS per l’invasione dell’Ungheria dalla vetrina internazionale di Stoccolma, anno 1957, dove era stato insignito del Premio Nobel, e di aver perorato la causa dello scrittore russo Boris Pasternak per il medesimo riconoscimento, rendendosi inviso al potente ministro degli esteri sovietico Dimitri Shepilov. Un clima tetro e grigio, cappa mefitica, l’Unione Sovietica negli anni della ‘guerra fredda’ e, in Occidente, indecenti e servili i partiti comunisti, proni al volere di Mosca (tra dissidenti relegati in ospedali psichiatrici e intellettuali, come il romeno Vintilia Horia, vincitore del premio Goncourt ma costretto a rinunciarvi su pressione dell’Humanité e dei servizi segreti di Ceaucescu). Nello specifico rimando al libro di Giovanni Catelli Camus deve morire (Nutrimenti editore).                                     

Di Camus, credo, aver letto quasi tutto quanto pubblicato in Italia, nel periodo  di innamoramento verso l’esistenzialismo (compresa La Nausea di quell’odiosa e isterica checca di Jean-Paul Sartre!). E, in buona misura, permane. Qui mi piace ricordare la seguente espressione tratta da Il mito di Sisifo: ‘Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice’ (mi sta a cuore oggi che il solo attraversare la strada o sul marciapiede raggiungere il bar è impresa)… E dell’ascesa ed ascesi ho rinnovato di recente citazioni e riflessioni.                                    

Il faticoso salire ancora un passo albero o spuntone di roccia un cespuglio di rovi è felicità ben nota, anche se ormai solo nel ricordo. Intima. Simile a libertà manifesta da Enea in fuga da Troia portando in spalla il vecchio padre Anchise – il passato che non ti abbandona e non intendi ripudiare – e per mano il figlioletto, quel futuro di ideali e di sogni, illusioni forse, ma a cui tieni saldo. E, dunque, si immagini Sisifo che sorride sotto la fronte madida di sudore e mentre arranca verso la cima spingendo il gravoso macigno. Forse indifferente che ad ennesimo reinizio è il suo destino. Credo – così la pensasse il Borges de La biblioteca di Babele – come Albert Camus abbia inteso Nietzsche e l’amor fati…                                                                                                                

Sisifo sorride perché la sua consapevolezza è felicità a sfidare gli dei, quelle divinità che, citando il filosofo cinese Lao-Tse (e Drieu la Rochelle ne trasse titolo per uno dei suoi ultimi romanzi), ‘il cielo e la terra non sono umani o benevoli alla maniera degli uomini; essi giudicano tutti gli esseri come se fossero cani di paglia serviti per i sacrifici’. Se gli dei ci sono ostili, peggio per loro. Il grido di rivolta di Sisifo è la consapevolezza che senza di lui il regno degli dei si risolverebbe in impotenza noia tristezza. E, dunque, non una colpa la sua, ma la condizione umana ove, accettandosi, si rende la propria sofferenza nobile destino.

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