Molta confusione sulle pensioni d’oro

 

Molta confusione sulle pensioni d’oro

Da molti mesi la propaganda politica si occupa delle cosiddette “pensioni d’oro”, e nella proposta di legge di bilancio, approvata dal governo lunedì, è stata stabilita una normativa (ancora non nota nei suoi particolari tecnici) su di esse: è quindi opportuno fare un po’ di chiarezza su questa questione.

Esse vengono classificate nelle seguenti categorie, unite dal concetto di essere state erogate o con pochi contributi versati o di essere state godute per moltissimi anni rispetto a quelli di lavoro, come:

 

  • le pensioni corrisposte con il vecchio sistema retributivo anziché con quello contributivo (che però non è entrato totalmente in funzione, tant’è che sono solo il 5% le pensioni liquidate con questo metodo) che è meno favorevole;
  • le pensioni molto anticipate rispetto all’età di vecchiaia, e quindi con pochi anni di contributi versati, per effetto di normative emanate di volta in volta (ad esempio, per gli statali, per aziende in crisi, per determinate categorie di lavoratori);
  • le pensioni d’importo assai elevato rispetto alla media dovute a particolari criteri di erogazione esistenti in passato per determinate categorie o per la retribuzione percepita.

 L’attuale presidente dell’INPS Tito Boeri, esponente della ricca borghesia milanese, già militante nel sessantottino “Movimento Studentesco” di Mario Capanna, finito a dirigere – come tutti i “rivoluzionari” sessantottini! – la Fondazione dedicata al finanziere De Benedetti, vorrebbe intervenire drasticamente su tutti i tre aspetti sopraindicati in nome di un “pauperismo” egualitario (per gli altri…). Tant’è che egli vorrebbe cambiare la denominazione dell’INPS, sostituendo la parola “previdenza” con la parola “protezione”: sarebbe allora lo Stato “protettore” a decidere di volta in volta quanta pensione dare e a quali condizioni. L’Unione Sovietica non avrebbe potuto ideare qualcosa di meglio…

 In realtà, le situazioni sono molte diverse. Per quanto riguarda i primi due aspetti, è evidente che nessun addebito può esser fatto ai percettori perché hanno solo avuto l’applicazione di leggi in vigore, a volte emanate per ragioni sociali (i prepensionamenti delle aziende in crisi) o economiche (la riduzione dell’eccesso di personale del pubblico impiego): in questi casi, dovrebbe valere il principio della irretroattività delle norme e dei “pacta sunt servanda”, da parte dello Stato, tanto più che all’epoca non si potevano prevedere né gli aspetti demografici, in particolare la longevità (elemento certamente positivo, però!), né la stasi dello sviluppo economico cui l’entrata in vigore dell’Euro ha dato peraltro un contributo notevole.

 Diverso è il terzo caso. Effettivamente, ci sono pensioni che sono state in passato calcolate in modo ultrageneroso per gli appartenenti a determinate categorie (esempio, i telefonici e i ferrovieri), per i dirigenti industriali, per i manager, per qualifiche assai elevate come capicantieri, direttori di agenzie bancarie, ed altro. E’ certamente vero che sono stati anche versati i relativi contributi: però il moltiplicatore per il calcolo della pensione li ha trasformati in modo esponenziale. Ma a questo proposito sorge un quesito: al di là del taglio che si potrà fare alle pensioni in essere, come ci si vuole comportare per il futuro, considerato che il metodo contributivo darà sempre pensioni elevate su retribuzioni elevate?

 Il Fascismo, come sempre, aveva prevista questa situazione e le aveva data una soluzione. Partendo dal presupposto che i lavoratori a basso reddito non avevano certo la disponibilità finanziaria e la volontà per provvedere al proprio futuro previdenziale, è stata imposta l’iscrizione obbligatoria all’INPS e i versamenti contributivi, in gran parte a carico del datore de lavoro. Con un limite, però: il reddito di 1.500 lire mensili di stipendio (anno 1938), equivalenti attualmente a circa 5-6.000 euro.

 Chi guadagnava oltre quella cifra, era esonerato dalla contribuzione all’INPS per la parte eccedente, perché si riteneva che quelle persone avessero le possibilità economiche e le capacità tecniche per costituirsi una rendita privata tramite un’assicurazione, in aggiunta a quella obbligatoria corrisposta dall’INPS. In tal modo, l’Ente previdenziale si privava di un provento contributivo anche elevato: ma lo faceva appunto per evitare di pagare in futuro anche importi pensionistici elevati.

 Domanda: sono disposti i governi attuali e futuri ad adottare questo sistema indicato dal Fascismo? Sistema che fra l’altro oggi è più accessibile, vista la gran quantità di fondi pensione istituiti da banche, assicurazioni e contratti di lavoro.

 Vi sono poi tutte le elevate pensioni, corrisposte in età ancora giovanile, da altre istituzioni estranee all’INPS, a cominciare dalla “Banca d’Italia”. Su quelle sembra non si possa intervenire. E anche questa è una discriminazione, magari rispetto a chi ha lavorato e contribuito per 41 anni e non può andare in pensione prima dei 67 anni previsti dalla legge Monti-Fornero.

 Infine, un dato. Tutto questo si fa perché, si dice, l’INPS è in deficit. Ma è vero? Premesso che l’Ente si occupa di due aspetti, uno previdenziale di tipo simile ad un’assicurazione, e uno assistenziale per cui il primo dovrebbe essere a carico solo dei contribuenti (datori di lavoro e lavoratori) e l’altro dello Stato, ebbene il saldo previsto per il 2018 della parte previdenziale è di soli 7.470 milioni di euro, differenza tra 203.225 contributi incassati e 210.695 prestazioni pensionistiche. Però la perdita è dovuta principalmente alla gestione dei pubblici dipendenti, che incide per 10.586 milioni e dei coltivatori diretti e artigiani (che pagano pochi contributi) per 8.144. Il settore del lavoro privato, la parte numericamente più consistente, è in attivo: ma su di esso si concentrano tagli e riforme.

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