APPROFONDIMENTI: gli asini di Cavour
I asu ‘d Cavour as lauda da lur, gli asini di Cavour si lodano da soli. Così dicevano i piemontesi ai fanfaroni, ai presuntuosi, a quelli convinti di essere sempre dalla parte della ragione. I somarelli del paese di Cavour, feudo di Camillo Benso, erano bruttini e forse non troppo svegli, nessuno faceva loro i complimenti, così pensarono di lodarsi da soli. A questo proverbio pensavamo ascoltando un’elegante signora, docente di materie scientifiche, mentre esaltava il tempo presente, il suo progresso, la bellezza della tecnologia, in contrapposizione all’oscurità del passato, che, a suo dire, troppi rimpiangono per ignoranza. Bisogna essere aperti al nuovo, al mondo, abbandonare le vecchie idee che “hanno dimostrato di non funzionare”. Quanto alla religione, Dio è una delle invenzioni peggio riuscite dell’uomo di ieri, cuore di tenebra, per niente sapiens; tutt’al più, si può credere in un’energia cosmica. Banalità da era dell’Acquario, new age più adorazione del progresso.
L’intellettuale che ha meglio descritto le ubbie degli asini di Cavour è un americano di sinistra, Christopher Lasch, divenuto il critico più implacabile dello sciocco ottimismo occidentale. Sulle tracce di Ortega y Gasset scrisse La ribellione delle élite, una sulfurea descrizione delle idee e dei modi di vita delle classi alte apolidi, senza principi, soddisfatte di se stesse. Nella Cultura del narcisismo rifletté sulla crisi culturale che ha trasformato il narcisismo da disturbo psicologico a forma mentis di un’intera società. Il narcisista guarda il mondo attraverso uno specchio in cui verifica continuamente lo stato della propria identità. Il capolavoro di Lasch è Il paradiso in terra, la massima confutazione dell’idea di progresso, religione secolarizzata dell’Occidente, fede cieca che resiste a ogni obiezione, “la più morta delle idee morte” (Lewis Mumford) in grado di penetrare nel regno devastato dello spirito e farsi credenza non scalfita dai fatti.
Narcisismo, cioè guardarsi allo specchio e trovarsi bellissimi, giusti, perfetti ma ripiegati su stessi, l’io minimo che si fa universo, il nuovo che è sempre superiore al vecchio. Il risultato è la convinzione di vivere, nonostante innumerevoli prove contrarie, nel migliore dei mondi possibili. La definizione risale all’ultimo dei geni universali, Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo, matematico, scienziato e giurista tedesco vissuto tra il XVII e il XVIII secolo. Leibniz, credente, riteneva che il nostro fosse il migliore dei mondi possibili in quanto pensato e creato da Dio. La trivialità contemporanea si è invece convinta che l’umanità, uscita dalla minorità dell’infanzia, abbia imboccato il sentiero del progresso attraverso le acquisizioni della scienza e della tecnica. La civiltà occidentale contemporanea sarebbe la conclusione felice della storia, avendo liberato l’uomo da ogni pregiudizio metafisico, consegnandolo al suo vero destino, il piacere ammantato di razionalità, diritti umani, tolleranza.
Il primo quesito da porre agli asini di Cavour, pardon alle anime belle, è come si concilia questa fede trionfale con l’oicofobia tanto diffusa? Oicofobia, l’odio di sé e della propria cultura, è il sentimento prevalente dell’Occidente drogato di progresso. Da un lato siamo certi di vivere nel migliore dei mondi possibili, dall’altro disprezziamo la civiltà che ha determinato i successi che ci inorgogliscono sino a proclamarci dèi. Le anime belle sono sempre certe di trovarsi dalla parte del bene, del giusto, camminano con il vento della storia (ma non avevano decretato che un senso o una direzione non esiste?), vivono come il signorino soddisfatto di Ortega, felice di sé, narcisista ma desideroso di “essere come tutti gli altri”, rinserrato in un pensiero strumentale teso all’utile immediato, dagli orizzonti chiusi nel proprio Io, indifferente e poi avverso a tutto ciò che non capisce per ignoranza e aridità spirituale.
La grande scoperta degli asini sapienti di Cavour è che la verità non esiste. Ci sono solo interpretazioni, opinioni, ciascuna equivalente a tutte le altre, purché, beninteso, non revochi in dubbio la nuova Verità, ovvero l’assenza di verità. Un incredibile pensiero negativo che afferma mentre nega, alla fine tanto assertivo da interrompere la discussione per mancanza di codici comuni. Quel che vale è l’esattezza delle proposizioni scientifiche e delle scoperte tecniche, che portano l’umanità “avanti”, costituiscono il nocciolo del progresso, perfezionano il mondo. Nel migliore dei mondi possibili è proibito chiamare le cose con il loro nome, se questo mette in crisi il plumbeo conformismo del Bene; trionfa il politicamente corretto, ovvero la menzogna virtuosa. Viene applicato il divieto posto da un pensatore austriaco, Wittgenstein, per il quale “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Naturalmente in nome della libertà e del positivismo logico che proscrive nel silenzio ogni trascendenza. Innominabile, come Voldemort nella saga di Harry Potter, è qualunque principio o idea che si opponga alle sorti progressive del Narciso contemporaneo, ma anche ogni parola che ferisca la sensibilità di qualche minoranza o evochi ciò che è negato e va dunque taciuto. Pensiamo al concetto di razza, a quello di differenza, per non parlare di termini che muovono solo al riso, onore, fedeltà, religione, dovere.
Siamo così attaccati all’uguaglianza astratta da riuscire a negarla in concreto nel suo nome: uno stupratore bengalese, nella laicissima e progressista Francia innamorata di Madame Egalité, è stato assolto poiché nella sua cultura quel comportamento non è percepito come criminale. Forse il giudice pensava alla definizione cristiana di peccato: il male si fa con piena vertenza e deliberato consenso. Ma il giudice è un Altro… Relativismo morale in nome del Bene e della Tolleranza, oicofobia, negazione della legge come cornice del vivere comune, ingiustizia: tutto in un unico colpo. D’altronde, anche nella fattoria degli animali di Orwell qualcuno era più uguale degli altri: significativamente, il maiale. Quanto alla legge, la contraddizione è un raglio altissimo degli asini di Cavour. E’ giusto ciò che è legale, o, viceversa, la legge prescrive ciò che è giusto e sanziona il suo contrario?
Un enigma insolubile poiché il progresso ha espulso la verità e ogni condotta può essere proclamata diritto. La libertà è rivendicata ovunque, ma intanto regole minuziose, occhiute e talora ridicole rendono la vita complicata e impongono divieti e limitazioni ieri impensabili. La dittatura degli “esperti” trasforma le nostre esistenze in esercizi di equilibrismo, danze sul filo dei libretti di istruzioni. Senza di essi, del resto, come farebbero a vivere gli uomini di paglia, apolidi, senza lingua, espulsi dalle comunità naturali? Rivendicare qualsiasi identità significa esporsi ad accuse sempre nuove. Il giurista Zagrebelsky, esponente di punta della classe dei best and brightest (i migliori e gli illuminati) punta l’indice contro il “tribalismo”, l’ultimo peccato dei populisti e della gente comune. Strano davvero questo bigottismo igienizzato, una sorta di Super Io superstite dopo la vittoria del principio di piacere di Freud (lustprinzip), la riabilitazione di ogni desiderio.
E’ il migliore dei mondi possibili, e il progresso ci ha resi dei bravi consumatori. Viene da sorridere all’invito di Nietzsche “diventa ciò che sei”. Siamo schiavi dei diritti, dei desideri, dei capricci chiamati libertà: eterogenesi dei fini. In possesso di roboanti titoli di studio, ci crediamo istruiti, civilissimi, maestri di conoscenza. Il nostro ideale è la comodità. Quanto è comodo pagare con carta di credito, usare microchip che aprono le porte e fanno tante altre cose la posto nostro. Pochissimi, specie tra i colti, i riflessivi, gli innamorati del progresso, si rendono conto di essere sottoposti a sorveglianza in ogni gesto quotidiano, quasi nessuno fa caso alla perdita di libertà nel mondo nuovo. Felici, tendiamo polsi e caviglie alle catene, correndo a consumare, salvo opporci vigorosamente a tutte le conseguenze del circo Barnum.
Consumatori compulsivi, abbiamo orrore delle discariche di rifiuti; siano costruite lontane dai nostri occhi o non esistano affatto. Vogliamo viaggiare, correre veloci in cerca di opportunità, emozioni, esperienze nuove, ma odiamo i combustibili che lo consentono e le opere pubbliche che rendono concreta la smaniosa libertà di movimento e circolazione. Il telefono furbo, il magico smartphone, cornucopia inesauribile se non si scarica la batteria, è una propaggine di noi stessi, ma formiamo comitati per rimuovere le antenne dai nostri quartieri. Siamo trasformati in incapaci dipendenti di meccanismi che non esistevano sino a pochi anni fa. Un sindaco di campagna, dopo i recenti disastri atmosferici, osservava sconsolato che erano bastate 24 ore senza energia elettrica per fermare ogni attività. I nostri nonni se la sarebbero cavata, senza lauree ma con la cultura materiale, come si definisce adesso l’antica capacità di affrontare la vita.
Non conta nulla: viviamo nella fiera delle vanità, tra balocchi e profumi e quasi si rimpiange il torvo moralismo di un Savonarola, che delle vanità, ovvero dei beni materiali, faceva falò nella Firenze dei Medici in pieno Rinascimento. Come Narciso, ci guardiamo allo specchio e ci piacciamo assai. Sarebbe meglio essere un po’ meno compiaciuti di noi stessi, riconoscerci brutti e con mille difetti, Almeno cercheremmo di migliorarci e di recuperare un briciolo di senso morale. L’inverno del nostro scontento diventa estate gloriosa nella luce artificiale del consumo, del desiderio e del progresso. Un grande poeta, John Milton, chiamava virtù la gratitudine di chi intende la vita come un dono e non una sfida per plasmarla a nostro piacimento. Chi oserebbe rammentare alle anime belle, agli asini di Cavour in vena di autoelogio, il realismo morale, la consapevolezza che ogni cosa ha il suo prezzo, il rispetto dei limiti, chi diffonderebbe scetticismo sul progresso?
L’orgoglioso asino sapiente non riconosce altra autorità che se stesso. Ha detronizzato Dio e scacciato il suo sostituto terreno, il padre, ma si è assoggettato a molti altri comandi. Crede nell’autorità della scienza e della tecnica, cioè del loro sinonimo il progresso, ma anche nella pubblicità, nello spettacolo, nell’industria culturale. Decide lui su chi è uomo e chi donna, chi definire genitore (uno, due, tre), ha acquisito poteri pressoché divini sulla natura, allontanando ogni obiezione come pessimismo o disfattismo. Curiosamente, si è convinto che l’economia di scambio basata sul potere dei grandi operatori del “mercato” non sia una costruzione umana, ma un dato di natura, l’unico a cui inchinarsi.
Le identità del passato dovevano cedere ad altre più complete, sosteneva lo psicologo Erik Erikson, l’umanità, la fratellanza, l’emancipazione. Nel loro nome, abbiamo costituito il regno del bene rivelatosi un inferno. Esaltando l’individuo, la libertà insindacabile, l’autonomia morale, si è aperta la via a miliardi di solitudini, all’incomunicabilità che, negli ultimi due decenni, quelli della grande rete, ci illudiamo di guarire con la connessione, la realtà virtuale, l’amicizia su Facebook, mi piace non mi piace, l’adesione a gruppi, parodie liquide della comunità. Non siamo mai stati tanto disconnessi dalla realtà e da noi stessi come da quando abbiamo raggiunto la società perfetta, conseguito la massima libertà.
Impressiona l’indulgenza verso il male. Sono sempre pronte giustificazioni, attenuanti, esimenti, che evaporano come la neve al sole appena il male si avvicina a noi e ci coglie direttamente. In quel momento, scopriamo che il mondo non è poi tanto perfetto, “non ci sono più i valori”. La mediocrità soddisfatta, nutrita di luoghi comuni, risulta la massima attrattiva dell’ideologia progressista nelle sue varianti liberali, ma il rifiuto di ogni visione eroica della vita è anche la sua massima debolezza. Sembra davvero che gli esseri umani non ambiscano a niente di più che sicurezza, agiatezza e evitare il dolore, aborrano la responsabilità e tutto ciò che dura per sempre.
Il Narciso contemporaneo, con gli occhi fissi sullo specchio e la mente al desiderio, non può riconoscere che l’islamismo, come una volta il cristianesimo vissuto, è psicologicamente più forte di una concezione edonistica della vita. Il progressismo mellifluo fa disprezzare il sacrificio, esige tutto e subito. La macchina desiderante è sempre attiva e scaccia ogni sentimento morale. Fa detestare la violenza, tra brividi di orrore e la convinzione assurda della sua disumanità. La attribuisce di volta in volta al razzismo, al nazionalismo, al maschilismo, al sessismo e a tanti altri “ismi” sconfitti i quali sorgerà la pace perpetua, ma non vi è mai stata tanta sopraffazione, fisica e psichica, come nella nostra epoca. Soprattutto, manca la tempra morale per affrontarla, la coscienza che ogni libertà è una conquista. Abbiamo abolito unilateralmente il nemico, e, di rimozione in rimozione, il dolore, la sofferenza, la morte, la fatica, ci siamo esonerati dalla responsabilità di uomini.
Essenziale è che avanzi la tecnica e sostituisca il giudizio morale con il criterio di fattibilità: è tecnicamente possibile, quindi è giusto e sarà legale, specie se l’oggetto può alimentare l’onnipotente mercato. E’ bene tutto ciò che può essere compravenduto, questa è la legge del migliore dei mondi possibili, esito e trionfale conclusione della storia. Dunque, si facciano figli in provetta, si affittino gli uteri, si accetti di morire per evitare la sofferenza poiché la vita non è degna di essere vissuta se non si è giovani, belli, sani e non si può affrontare la prova specchio di Narciso.
Nella mitologia greca che ha fondato la cultura europea, il bellissimo figlio della ninfa Liriope e di un dio fluviale è una figura negativa, incredibilmente crudele in quanto, innamorato della sua immagine, finisce con il disprezzare chi lo ama. La sua condizione è vista come una punizione divina, tanto che Narciso muore cadendo nell’acqua in cui si ammirava. L’attualità del mito sta in due elementi: la punizione lo colpisce perché ha oltrepassato il limite, cadendo nella hybris, l’eccesso di orgoglio, superbia e prevaricazione, che nella tragedia greca diventerà l’antefatto, la causa empia della catastrofe narrata sulla scena. L’altro elemento, straordinariamente contemporaneo, è che Narciso non si innamora di se stesso, ma della propria immagine.
In lui vive un dramma che ci riguarda come uomini d’oggi, lo sdoppiamento, la confusione tra realtà e apparenza. Non per caso l’uomo moderno tiene tanto all’ immagine – ciò che si vede – e così poco all’onore, l’adesione interiore a un modello di comportamento personale che si vuole riconosciuto dagli altri. Tutto si equivale, nel festival dell’identico. E’ scomparso anche il sentimento tragico della vita che ci fa apprezzare, difendere e trasmettere ciò che si è più di quello che si possiede. Prima sapevamo che ogni civiltà può essere spazzata via, adesso lo ignoriamo e comunque non ce ne importa nulla. Tutto è stato sostituito dalla fede nell’avanzata inarrestabile del progresso. Non ci si confronta neppure più con l’Altro, ci si mischia, poiché nulla vale. Nella notte illuminata artificialmente, tutti i gatti sono grigi.
Nel progresso è compresa la convinzione che la nostra civiltà sia una barbarie da superare: lo ha affermato un politico svedese, Fredrik Reinfeldt e la cosa più incredibile è che appartiene al partito conservatore. Nel gran ballo del mondo migliore, ci limitiamo a deplorare le conseguenze di cui amiamo le cause. Stefan Zweig, lo scrittore austriaco autore del Mondo di ieri, emigrando in Sud America negli anni Quaranta, dove si illudeva di trovare qualche viva vestigia della sua cultura, scrisse “l’Europa mi parve condannata a morte dalla sua stessa follia. L’Europa nostra patria spirituale, tempio e culla della nostra civiltà occidentale “.
Quella sentenza di morte pronunciata da un uomo finito suicida è in via di esecuzione, in un tempo diviso tra l’indifferenza bovina e l’ottimismo sciocco di chi è convinto di vivere nel paradiso fondato dagli uomini più intelligenti della storia, liberi giganti che hanno scacciato i nani, ombre del passato. Uomini di paglia, autocompiaciuti, Narcisi innamorati dell’immagine deformata di uno specchio spezzato, peggio, molto peggio degli asini di Cavour.