Il valore pedagogico della paura

 

Il valore pedagogico della paura

È del 17 dicembre scorso la notizia del ritrovamento a 100 chilometri dal centro di Imlil, in Marocco, dei cadaveri delle due studentesse scandinave brutalmente stuprate e uccise per decapitazione. Si chiamavano Maren Ueland e Louisa Vesterager Jespersen, rispettivamente di 28 e 24 anni, norvegese la prima, danese la seconda.

 La pista che è stata immediatamente seguita è stata quella dell’estremismo islamico, culminata in seguito con l’arresto e l’immediata esecuzione dei tre responsabili. Attualmente sarebbe in stato di arresto un quarto uomo, un maghrebino con cittadinanza svizzera, radicalizzatosi negli ultimi anni e che parrebbe legato ai tre assassini.

 Ma perché Maren e Louisa si trovavano lì? Le due giovani donne avevano deciso di avventurarsi da sole, zaino in spalla, sulla catena montuosa dell’Atlante, una meta piuttosto ricercata dagli amanti del trekking, ma ad attenderle invece di una divertente escursione naturalistica hanno trovato la morte.

Non solo sarebbe assolutamente inutile e ridicolo commentare questo tremendo fatto di cronaca utilizzando il registro del razzismo tout court, come hanno prontamente fatto molte testate giornalistiche, ma sarebbe anche fuorviante: il punto della questione non è il maggiore o minore pericolo cui si potrebbe andare incontro in Marocco, a Londra, a Roma o New York, ma è piuttosto l’assoluta mancanza di prudenza  manifestata, oggi più che mai, dalle giovani generazioni, le stesse cresciute a pane ed “Erasmus”.

La colpa, se di colpa si può parlare, non è solamente di chi ha spezzato due vite innocenti nel modo più feroce possibile, ma anche di chi ha alimentato la propaganda globalista #noborders secondo cui non solo non esistono confini, ma il mondo è un grande parco divertimenti da esplorare in solitudine per “arricchire” il proprio bagaglio culturale e abbattere i pregiudizi (“il razzismo si cura viaggiando”cit.);  gli altri sono tuoi fratelli, amici, compagni di viaggio ( anche se a volte stuprano e decapitano, ma questi sono dettagli).

Ciò che manca è fondamentalmente il valore pedagogico della paura, andato perso nel frastuono delle sirene liberal-progressiste: il mondo non è Gardaland, ma un luogo pericoloso e potenzialmente ostile, a tutte le latitudini; l’essere umano è di base malvagio e se può scegliere tra il fare il bene o il male, sceglierà più spesso il secondo, perché è più facile; gli altri non sono tuoi amici, ma possibili predatori, a maggior ragione se sei una donna (il motto “le strade sicure le fanno le donne che le attraversano” probabilmente era stato fatto proprio anche dalla due vittime, due icone del progressismo liberale).

Spiace umanamente, ma queste due, come del resto anche Antonio Megalizzi, altra vittima della narrazione liberale, hanno pagato il prezzo più caro di un cancro chiamato “globalizzazione” e se vogliamo continuare a sopravvivere dobbiamo insegnare a noi stessi e ai nostri figli a misurare i nostri passi alla luce di quel sacro timore che dovrebbe sempre guidarli.

Meglio essere poco “moderni”, ma vivi, che “cool” sotto terra.

Torna in alto