Jüngeriana [6]

 

Jüngeriana [6]

Uno degli aspetti inattuali e utopici dell’Operaio insisteva, per Evola, nell’aver individuato come chiave di formazione dell’uomo nuovo, antiborghese, il lavoro. Perché il lavoro aveva senz’altro nelle società tradizionali il ruolo che Jünger gli attribuisce: di disciplina, di elevazione sull’interesse personale meschinamente inteso, di integrazione nell’organismo statale; ma questi caratteri sono andati perduti proprio nell’èra borghese e non si capisce come possa cambiare di segno.

Il fatto è che Evola considera Jünger un uomo differenziatosi nelle esperienze di guerra, ma non un pensatore della Tradizione che sappia affrontare argomenti simili con il giusto bagaglio di conoscenze; per questo, il passare del tempo sembra costituire una continua smentita alle certezze dello scrittore tedesco. Ancora una volta però Evola riconosce a Jünger il merito di aver saputo autonomamente cogliere questi limiti, quando in Irradiazioni del 1949 affermava che L’Operaio doveva essere integrato da una parte “teologica”; e tuttavia la teologia dell’Operaio è impossibile, mancando i riferimenti tradizionali, dei quali a volte Jünger rivela, per Evola, solo una sorta di nostalgia, come si può cogliere nella figura di sconfitto in partenza del principe Sanmyra in Scogliere di marmo.

Ma se la Tradizione è solo nostalgia, lo spazio spirituale dinanzi all’Operaio è vuoto e non si vede come sia possibile riempirlo; nemmeno si riuscirebbe a comprendere in quale direzione rivolgere la Mobilitazione Totale da Jünger tanto auspicata. Ma al di là dei limiti teorici, L’Operaio resta, per Evola, una lettura utile, presentando una divisa umana antiedonistica e persino antieudemonistica, pronta a seguire nel comando non chi più promette, ma chi più esige, chi indica la meta verso cui indirizzare quello che costituisce il più alto desiderio dell’uomo differenziato, se non dell’uomo in generale consapevolezza a parte: il sacrificio di sé verso una meta più alta. Ed è proprio questo a rendere il realismo jüngeriano eroico e non materialistico, benché incompleto.

Come scrive l’Autore: «Ciò che manca alle opere che edifichiamo è proprio la forma, la metafisica, è quella vera grandezza che non si ottiene mediante sforzi, né con la volontà di potenza, né con la fede». La nostra è un’epoca in cui le antiche forme sono tramontate e le nuove non sono ancora sorte: «Nondimeno, si può dire che il punto zero è già stato sorpassato», in virtù di una tecnica che si propone mete sempre più alte e gli Stati si espandono oltre i confini nazionali. La forma dell’Operaio si rivela il giusto mezzo per vivere: un modello di vita cinico, spartano, prussiano o bolscevico. Fenomeni come i cavalieri teutonici, l’esercito di Federico II, la Compagnia di Gesù sono i prototipi di un personale che vive in una volontaria povertà, come quella del monaco e del soldato, che manovra e controlla il possente e prezioso arsenale della civiltà.

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