APPROFONDIMENTI: Via del Campo
Beata quella Patria che possiede una memoria condivisa. Noi no, tumore maligno dell’Italia senza stile, ape vagante senza ritorno alla casa comune, sepolta ancora sotto le macerie della guerra persa, per cui anche i ricordi sono appannaggio geloso dei Montecchi o dei Capuleti. Basterebbe il gesto nobile, alto, di rendere un omaggio agli avversari ma si preferisce, dalle tante sponde, zappare e recintare ben bene il proprio orto. Premessa forse un po’ retorica ma realista per ricordare un grande cantastorie con la voce profonda, una chitarra e testi assai vicini alla poesia. Nel mitizzato ’68 Fabrizio De André pubblicava Attenti al gorilla, traduzione dal francese di un testo del suo maestro culturale e politico, lo chansonnier Georges Brassens. “Quest’oggi me la levo” disse il bestione, cosa? La verginità sessuale. Uscito, chissà come, dalla gabbia consumò il suo istinto con un bieco giudice che invocava la mamma nel dolore dello stupro. Cosa ci insegna questa storia truculenta, scandalosa se non che le gabbie del manicheismo generano mostri da recludere coi chiavistelli per evitare d’essere stuprati dal “nemico bestiale”. Se non esistessero sbarre, leggi scritte o invocate contro “l’altro” di certo la violenza politica perderebbe l’arco, si potrebbero cucire le mille crepe della casa di tutti che non è però un Paese o peggio ancora uno Stato, ma la Patria.
Brassens era anarchico individualista, lontano mille miglia dalle pievi delle ideologie considerate, da lui, le nefaste arpie d’ogni male, nei suoi riferimenti letterari c’erano Villon, Verlaine, Rimbaud ma anche quel gigante di L.F. Céline definito dal beat C. Bukowski: “Il più grande scrittore degli ultimi duemila anni”. Solo un esempio d’ un autore trasversale che lega gli opposti.
Tolta la gabbia rigida della fede ideologica potremmo parlare con i tanti gorilla metaforici, buttando giù a picconate i troppi muri di Berlino a difesa strenua dell’identità di contrada e scopriremmo, sicuro, che la matassa non contiene fili monocolore ma assai variopinti.
Faber, pseudonimo di De André coniatogli da P. Villaggio, era anarchico, su questo non ci piove, ma il suo Evangelo giovanile era stato L’Unico e la sua proprietà di Max Stirner (ne fui affascinato anch’io diversi anni fa) forse perché lo Stato borghese o comunista che sia è solo l’apparato plutocratico dove si concretizzano le Cose forti di partiti e potentati economici. De André cantava invece gli espulsi dalla centrifuga di Sparta, puttane, matti, eretici diseredati, quel caleidoscopio di ultimi che s’ingrossa ad ogni giorno diventando, incredibile, sfruttamento della povertà. E’ la stessa platea esistenziale dipinta, descritta da un altro anarchico tuffatosi convinto nella rivoluzione nera, Lorenzo Viani, quel vàgero ribelle impenitente. Ed è un altro esempio.
- Tolstoj nei suoi Diari annota: “I semplici spesso conoscono la verità meglio dei dotti, […] perché la loro osservazione degli uomini e della natura è meno annebbiata da varie teorie “e lui ai kulaki aveva dedicato la sua vita sociale assorbendone dolori immensi ma anche fierezza indomita e saggezza autentica. Chi non ama questo scrittore anarchico-cristiano alzi la mano.
Certo è’ oggettivamente impossibile mettere assieme cose con gli intellettuali barocchi, i comunisti da salotto, i teologi creatori di un Dio presentabile a tutti, i fascisti anacoreti, ec. Da un lato le gavette profumano di minestre, dall’altro non ci sono affatto sostituite da luculliani banchetti.
I nostri cavalieri invisibili combattono fame, freddo, meretricio, lavoro nero, esclusione, sono in tanti, in progressivo aumento, parlano lingue diverse, ti svendono calzini, s’arrangiano nei cantieri come nelle cucine in una bolla grande quella degli emarginati.
Lo zoo si sa chiude, per classificazione, le bestie nelle gabbie in attesa del pasto, l’importante è che ci restino a vita, ferme al loro posto, con la targhetta della specie mentre i genitori ai figli distratti gridano: Attento al gorilla!
Faber è un’occasione, nel ventennale della sua morte, per cominciare ad aprire i gabbioni, seminare nuove essenze in una terra diventata aspra, brulla, tutto da dissodare con la volontà di farne quel giardino incantato evocato da Dante, infilandoci quel “bastoncino verde”, magico, simbolo di una Patria pacificata. Seghiamo i cancelli chiamando all’opra, a parer mio, gli ultimi di qualsiasi colore, purché siano liberi dalla “scienza” delle sbarre, riflettendo sulle parole di quella malfamata Via del Campo genovese:
Dai diamanti non nasce niente
Dal letame nascono i fior.