I millennials, la generazione perduta – la fuga [1]

 

I millennials, la generazione perduta – la fuga [1]

Abbiamo spesso parlato della fuga dei giovani, come elemento caratterizzante lo stile di vita dei millennials, abbiamo detto che ci sono due tipi di fuga; la fuga fisica, reale, la partenza e il non sicuro ritorno verso mete lontane, e la fuga mentale, psicologica e umana, verso un altrove fatto di abbrutimento, vita mondana assolutamente materiale, sostanze, alcol e depravazione. In entrambi i casi l’origine come fondamento del problema è la medesima; la desertificazione delle prospettive lavorative ed economiche unita all’impianto culturale e filosofico postmoderno, ovvero in sintesi il capitalismo assoluto in ogni sua espressione, economica, filosofica, culturale, quindi antropologica e sociologica.

Sono centinaia di migliaia i giovani che ogni anno fanno le valigie per fuggire all’estero, cercando un’affermazione di sé stessi che non riescono a compiere in patria, sperando in un arricchimento economico, in una vita che non sia fatta di normalità e routine, che emuli le esperienze dei riferimenti “no-borders” e dei loro disvalori. La condizione economica delle famiglie italiane, ma in generale di quelle europee tutte, spinge sempre di più i giovani ad emigrare, per quanto riguarda l’Italia i dati sono allarmanti; 100 mila ogni anno sono indicativamente i ragazzi che se ne vanno, di cui circa il 40% i laureati. Un’emorragia dunque incolmabile, che a poco a poco sta privando la nazione di forza lavoro, tecnici, ricercatori, classe dirigente futura.  

Le ragioni principali certamente quelle economiche, offerte di lavoro inesistenti e/o con retribuzioni misere, contratti di lavoro a tempo determinato, turni massacranti da minatori. Le leggi del mercato, ovvero del turbocapitalismo, sembrano aver desertificato le prospettive lavorative dei molti giovani che ogni anno dovrebbero entrare nel mondo del lavoro, lavoro peraltro che ormai ha mutato la propria essenza, parimenti agli essere umani nativi dell’era postmoderna, mutati antropologicamente, e a quella temporalità ontologicamente mutata, ormai fatta di un “presente onnipresente”, esso è diventato sfruttamento.

Ma se lavoro significa costruire un futuro, una prospettiva altra, affermazione e possibilità, sfruttamento significa stallo, miseria, necessità indotta e obbligata, assenza di prospettive favorevoli, impossibilità di affermare sé stessi e i propri sogni. Il tessuto sociale del paese, stretto nella morsa del capitalismo sempre più onnivoro, cerca non più lavoratori, ma schiavi da sfruttare – gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare – meglio sarebbe asserire che gli immigrati accettano salari da fame che gli italiani giustamente non vogliono accettare.

L’emorragia dicevamo non riguarda solo i lavoratori manuali, ma per una buona parte riguarda anche i laureati, con percentuali da capogiro che si attestano attorno al 40%. La condizione in cui versano le casse dello stato, messe alle strette dalle logiche illogiche dell’eurocrazia e della moneta a debito, unita alle scarse capacità di lungimiranza di qualsiasi classe politica, impedisce ed ha impedito qualsiasi investimento nel settore della ricerca, quindi obbliga sostanzialmente i giovani laureati a fuggire via, per non essere costretti ad essere sfruttati a basso costo in qualche fast-food.

Quello che è certo, è che fuga non significa salvezza, infatti la strada di chi rimane inesorabilmente solo con sé stesso in una terra lontana, è ricca di ostacoli e asperità, in pochi ce la fanno, molti di coloro che se ne vanno finiscono per essere sfruttati altrove, con la sola differenza che a casa non li aspetta nessuna famiglia, intorno a loro non c’è più il “paese” fatto di facce amiche e una sincronia culturale e linguistica, ma uno sterminato orizzonte di solitudine e nessuna solidarietà.

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