Genealogia di una carceraria libertà globale
«Chi non si muove, non può rendersi conto delle proprie catene»
Rosa Luxembourg
Eppure ci muoviamo. Lo spaccato dell’animo seziona chirurgicamente l’iniziativa, soffoca una visione fiduciosa, impendendo di fatto ogni respiro non-programmato. Cosa significa? Che anche muoversi, oggi, non è sufficiente per garantire sapore alla libertà e a tutto ciò che su di essa qualcuno sente ancora di poter, a buon motivo, esperire. Siamo iper-specializzati negli assetti strutturati della vita sociale, ma dove, articolazioni e muscoli, permangono concretamente liberi di esseri incontrollabili? Quando l’ordine percepito si confà ad un disordine massificato e generalizzato? La società vede accatastati cumuli di pesi morti le cui aspirazioni messe a tacere da vincoli ambigui: la fratellanza individua il sito di riferimento e vi direziona i corpi; poi, una volta raggiunta la tana, la stessa familiarità si fa tiranna e confina lo spazio con estensioni talmente ampie che la visuale miseramente umana comunica un messaggio d’infinito talmente distorto da non cogliere né la propria condizione di rifugiato esistenziale né che, estraniando la volontà, si corre sorridenti verso una felicità borderline, tra gaiezza e disperazione.
Quale consistenza, e per quale sostanza può sussistere, se la depravazione della moralità provoca fetidi sentimentalismi di presunta carità verso un obbligo-non-obbligante, rigettati cioè esternamente, vomitati appresso l’estraneo, distante, problema “altro” da quanto si tocca effettivamente con mano. Due oscillazioni: l’una verso l’autoreferenzialità e l’altra all’impulso etico riversato a tutto quello spettro del reale che non coinvolge presenziando, ma da distanze favorevoli all’ego. Non il vicino di casa da risollevare, neppure il contrasto fraterno che non ci vede sufficientemente intraprendenti per risvegliare la forza della familiarità, ma dilemmi distanti ci fanno sentire interpellati a promuovere la fine della povertà nella stessa piazza entro la quale ci arricchiamo di devozione verso il consumistico nulla appagante. Siamo educatori di mortificazione. Giunge a termine, con enfatico rammarico, l’era del sacrificio. Se solamente un decimo di questa presunzione competitiva sociale, economica e politica, venisse devoluta a coloro che sentono su di sé il peso proattivo di compartecipare al disagio nell’intento di annientare la sottomissione personale, quante forze verrebbero a radunarsi. Invece, tutto ciò che si continua a compiere è dare loro biglietti low cost per partire, spostando la sfida a cieli nuovi, mentre l’uomo, con il suo fardello, permane malgrado l’offerta.
Le basi per una rinascita nazionale e, ancor più, sovranazionale, levigano il dolore generalizzato a disagio psico-fisico, ansia o stress, apatia o avara ingordigia, perché il profilo prende le sembianze di una genuina riappropriazione della morale, quella che la barbarie del politicamente (s)corretto ha battezzato come spartana e distratta, antagonista dell’umano, eppure mentre viene così denominata lo stesso biopotere spalanca la dittatura del sé. Per usare la brillante analisi di C. Lash «il nuovo narcisista è perseguitato dall’ansia e non dalla colpa». L’ansia di dover mostrare che meritiamo la dignità: un concetto ferocemente astuto, composizione chimica della neo-fragilità post-moderna. L’adito a fameliche identità in divenire con una mano offre l’abbondanza mentre con l’altra nasconde la decapitazione della coercizione. Istituzioni che dovrebbero promuovere la vitalità del senso ultimo ed elevato, sprofondano nella sporcizia interna a congegni concettuali nocivi, promotori di sussultori aliti relativistici e progressisti, figli di una giustizia sleale, la medesima che non dà più a ciascuno ciò che è suo.
In chi la rappresentanza? In chi il popolo? In chi il sunto del volere per disposizione collettiva e individuale? Quale palcoscenico servirà l’antica opera disfattista del compromesso annunciando con arte ed eleganza intellettuale che 2+2 non darà mai 5 e che un risultato determina contenuto di verità. Diviene oltremodo arduo conservarsi integri in un credo, religioso o valoriale che sia, quanto più ci si avvicina agli uomini affiliati nelle loro contraddizioni. Non l’eccezione, ma l’abitudine alla contraddizione fa maturare l’esausto. Si può razionalmente sostenere che basti parlare di amarezza? La mia sensazione è che oramai sia anch’essa un esordio stagnante superato dalla desolazione. Le fondamenta, grazie a Dio, non stanno nella condizione limitata, quanto piuttosto in ciò che oltrepassa il tormento del misero. Ed è lì che si rischiara la Tana.