Scuola di Pensiero Forte [45]: lo statuto morale della famiglia
La famiglia nella sua specifica, unica ed irripetibile costituzione gode di un suo statuto morale.
Essa è fondata sul matrimonio, che troviamo definito come “unione fisica, morale e legale dell’uomo (marito) e della donna (moglie) in completa comunità di vita, al fine di fondare la famiglia e perpetuare la specie.”[1]
Il matrimonio è l’elemento centrale e necessarissimo affinché si possa parlare di famiglia; ciò è appurato e condiviso in tutte le culture e nel Diritto internazionale, sotto varie forme ed espressioni di raffinata chiarezza.
Il matrimonio ha dei fini essenziali, vera e propria ragion d’essere di questa unione, che sono imprescindibili e senza i quali viene a mancare la sussistenza stessa, moralmente ma talvolta anche giuridicamente, di esso. Tali fini sono tre: la generazione e l’educazione della prole, il mutuo aiuto e il temperamento della concupiscenza.
La generazione e l’educazione dei figli è una finalità che viene definita primaria, in latino bonum prolis, poiché anche nella riduzione ai minimi termini del rapporto, rappresenta il punto di congiunzione e di determinazione della coppia. Nel matrimonio l’uomo e la donna, oltre il prolungamento della stirpe, cercano e trovano il compagno della vita. Infatti, mediante l’unione intima, totale, definitiva dei due coniugi, esso offre a ciascuno di essi il complemento cui aspirano naturalmente: un sostegno materiale e spirituale prezioso, che costituisce per la generalità degli uomini il mezzo provvidenziale del loro perfezionamento personale e sociale, del loro progresso morale e della loro santificazione. Si parla anche, non a caso, di “completamento” o “perfezionamento” degli sposi. Questi termini bene esprimono l’idea di un vuoto colmato, di pienezza, di equilibrio di tutto l’essere suscitati dall’amore scambievole. Di qui nei coniugi la gioia, la dedizione alla persona amata e al focolare, il coraggio nell’ora della prova e lo sviluppo armonico e completo della propria personalità.
Oltre al mutuum adiutorium, nel matrimonio si aggiunge nell’ordine attuale il remedium concupiscentiœ. La concupiscenza della carne, infatti, non è solo un provvidenziale impulso verso il soddisfacimento di una esigenza della natura, ma è spesso del naturale impulso una pericolosa deviazione, in quanto insorge contro il governo della ragione e spinge l’uomo verso l’uso disordinato del piacere sensuale (vulnus naturæ lo chiamavano gli antichi): rimedio legittimo per la natura ferita è il matrimonio che, pure temperando l’ardore della passione, argina la concupiscenza, ordinandola al nobile fine della procreazione.
Tra i fini del matrimonio, non c’è opposizione, ma armonia. Gli sposi infatti, cercando il completamento reciproco, contribuiscono al benessere della società, d’altra parte la procreazione e l’educazione dei figli non giova soltanto alla comunità, ma viene pure a cementare l’amore coniugale con nuovi vincoli. Questi fini, tuttavia, non sono su di uno stesso piano e tra loro eguali: esiste un rapporto gerarchico per cui uno è più elevato e importante dell’altro, come ci ricorda San Tommaso d’Aquino “fine più essenziale senza del quale il matrimonio non può né essere compreso né definito è la generazione dei figli”[2].
Del resto, è la natura che fa concludere a questa gerarchia di rapporti: solo la prole infatti, può essere considerata come il termine naturale a cui è stata ordinata la differenza stessa dei sessi e dei temperamenti, che corrispondono alle diverse mansioni dell’uomo e della donna entro l’ambito della famiglia. La cosa è ancora più evidente se si considera il rimedio della concupiscenza. Voler separare questo fine dalla procreazione, significa invertire l’ordine naturale stabilito, secondo cui il piacere congiunto con l’uso del matrimonio è per sua natura un mezzo provvidenziale per facilitare ai coniugi il compito della procreazione del genere umano, e quasi a controbilanciare le gravi responsabilità.
Occorre ancora sottolineare che i tre fini sono subordinati, ma distinti e assolutamente irreducibili. Il fine secondario, cioè, non si esaurisce nell’essere semplicemente un mezzo, uno strumento, sia pure del fine principale, ma conserva la sua ragione di fine, benché subordinato a un altro, che è principale, ossia non è qualcosa di accessorio e di accidentale che si aggiunge all’essenza del matrimonio, ma appartiene alla sostanza dell’istituzione, e pertanto è perseguibile per se stesso.
In tale modo, la famiglia si trova solidamente fondata e può muoversi moralmente verso i fini esterni ad essa: il Bene della comunità, della città, dello Stato. I genitori sono tenuti a educare i figli, nelle leggi morali come in quelle civili, ed è proprio in famiglia che si impara a stare in società. Essa è la prima palestra, come diceva Aristotele[3], presso la quale la persona acquisisce il suo statuto morale, comprende il senso della vita, riconosce e stabilisce i fini ultimi dell’esistenza e motiva il proprio agire.
La essenzialità e centralità della famiglia si mostra essere anche morale e, per la sua specifica fattezza, insostituibile con niente al mondo.
[1] Vedi http://www.treccani.it/enciclopedia/matrimonio/
[2] “Proles est essentialissimum in Matrimonio; et secundo fides, et tertio Sacramentum.” in Sum. Theol., Suppl., q. 49, a 3.
[3] Aristotele, Politica, libro I, 3-7.