Identità e sovranità, termini imprescindibili della nuova riscossa populista
L’impoverimento lessicale degli ultimi anni ci impedisce di valutare accortamente il senso di taluni termini, ricorrenti nel linguaggio propagandistico politico in senso superficiale e generale, mai dibattuti se non in ambienti culturali elitari.
Eppure battersi per una idea dovrebbe significare il conoscerne la portata di significato e di senso. Non sempre è così. Lo spauracchio europeo diventa sempre più la forza transnazionale di opposizione contro la quale sbandierare la propria fede “sovrana”, un patriottismo moderno, un nazionalismo imperfetto.
La paternità della parola sovranismo è contesa e sembra sia stata utilizzata in politica la prima volta dai Movimenti che rivendicavano l’indipendenza del Quebec francofono dal resto del Canada. Filosoficamente e giuridicamente essa invece è stata teorizzata nel testo di Jean Bodin “ I sei libri della Repubblica” (1576) come il superamento della distinzione in precedenza fatta tra potere (potestas) e l’autorità o la dignità del potere (auctoritas). Sovranità per cui è il potere al di sopra degli altri poteri, che non dipende nelle scelte da altri se non da se stesso, come quello del sovrano appunto.
L’Italia nel tempo a causa di firme liberticide accomodatrici di posizioni internazionali, ha perduto quasi definitivamente la possibilità di scegliere la propria linea politica e si è accontentata di dipendere dall’America, dalla Unione Europea, da poteri artificiosi, che le hanno imposto leadership politiche, linee economiche, atteggiamenti giuridici. Ma è accaduto molto di più. All’Italia è stato imposto una modifica valoriale, una deviazione alla sua storia di costume o un arresto anti – naturale, qualcuno potrebbe obiettare. L’impoverimento linguistico, lo smembramento del sistema familiare, l’aggressione enogastronomica e l’esclusione delle eccellenze, soprattutto del sud Italia, dagli accordi transazionali. L’omologazione del mercato della moda e dell’arte, per i quali esiste oramai uno stile e una sola arte, quella che vende.
Tutto questo non ha fatto altro che minare al cuore l’origine orgogliosa del nostro popolo e quindi la nostra identità. Identità è una parola addirittura negata in alcuni testi di Antropologia culturale eppure viva ed esistente. Essa etimologicamente risale a “idem” latino e “tautotes” greco, ovvero medesimo calco. L’identità è l’essere qualcosa e non poter essere altro, definisce forme, chiude cerchi aperti. Il ministro della giustizia ungherese ha parlato della difesa della identità costituzionale a garanzia della sovranità del popolo Ungherese, che la Unione Europea garantisce nella forma, ma non certo nella sostanza dei trattati internazionali.
La identità è sì difesa dalla costituzione, che oltre che carta di articoli di legge diventa presentazione della storia di un popolo, ma essa è custodita soprattutto dalla conservazione del mos, dell’etos, del carattere di un popolo, quindi della sua lingua, che Nietzsche rivendica come suo sangue. L’obbligatorietà dell’inglese, lingua dei mercati, oltre che nei rapporti internazionali nello studio delle materie scientifiche, tra cui la storia, è un controsenso e un’abdicazione di sovranità, un colonialismo culturale. Lo studio del latino e greco, nei licei, con traduzione inglese, risponde alle esigenze del mondo del lavoro, non della crescita culturale e della continuità tradizionale di un popolo, che nel liceo classico deve trovare i capisaldi della sua storia, della sua indole, del suo “calco”.
Senza questa consapevolezza la politica nazionale non esprimerà mai a pieno le rivendicazioni “populiste”, rimarrà imbrigliata in una comunicazione monca e senza prospettive, ma a lungo termine anche senza senso. Un po’ come chi ha avuto l’ardire di scrivere su un simbolo elettorale, populisti e conservatori, pensando fosse una trovata intelligente e classificandosi come gli ennesi analfabeti della nostra pur troppo infelice storia politica.