De Regimine Principum [8]: il premio dei buoni governanti è la beatitudine celeste
Resta ancora da considerare quale eminente grado di beatitudine celeste otterranno coloro che eseguono degnamente e lodevolmente l’ufficio di re. Infatti se la beatitudine è il premio della virtù, ne consegue che a maggior virtù spetta maggior beatitudine.
Orbene, la virtù più eccellente è quella con la quale uno è in grado di dirigere non soltanto se stesso, ma anche gli altri; ed è tanto più eccellente, quante più sono le persone che governa; perché anche secondo la forza fisica uno è giudicato tanto più virtuoso quante più sono le persone che può vincere; o quanti più pesi può sollevare. Perciò si richiede una virtù maggiore per governare una famiglia che per governare se stessi, e ancora più grande per il governo di una città o di un regno. È dunque proprio di una virtù eccellente esercitare l’ufficio di re. Quindi nella beatitudine le è dovuto un premio superiore.
Ancora: in tutte le arti e facoltà meritano più quelli che reggono bene gli altri di quelli che si comportano bene seguendo la direzione altrui. Nelle cose speculative infatti vale di più trasmettere agli altri la verità insegnando, piuttosto che il poter intendere ciò che viene insegnato da altri. Anche nelle costruzioni è stimato di più – ed anche pagato di più – l’architetto, che progetta l’edificio, dell’artefice che, secondo il suo progetto, lo mette in opera manualmente; e nelle imprese militari la vittoria conferisce più gloria alla prudenza del comandante che non alla forza del soldato.
Ora, il reggitore di una comunità rispetto alle cose che debbono essere compiute dai singoli secondo virtù, si trova come l’insegnante davanti al sapere, l’architetto rispetto agli edifici e il comandante rispetto alle guerre. Dunque il re è degno di un premio più grande, se ha ben governato i sudditi, che non qualsiasi suddito, se si è comportato bene sotto la guida del re.
Di più: se è proprio della virtù far sì che con essa l’opera dell’uomo diventi buona, sarà maggiore quella virtù con la quale viene operato un bene maggiore. Ma il bene della comunità è più grande e più divino del bene di uno solo: ed è per questo che talvolta si ammette il male di un individuo, per il bene della comunità; si uccide il criminale, per esempio, per dare la pace a tutta la comunità. E Dio stesso non permetterebbe che nel mondo vi siano dei mali, se da essi non facesse derivare dei beni per l’utilità e la bellezza dell’universo. Ora, è proprio della mansione del re procurare diligentemente il bene della comunità. Dunque al re per il buon governo è dovuto un premio più grande che non al suddito per le sue buone azioni.
Questo è ancora più evidente, se si considera la questione più da vicino. Qualsiasi persona privata infatti è lodata dagli uomini – e da Dio le viene computato per il premio – se soccorre il bisognoso, se pacifica i discordi, se strappa un oppresso da un prepotente e infine se dà a chiunque aiuto e consiglio in qualsiasi modo per il suo bene. Quanto di più dunque deve essere lodato dagli uomini e premiato da Dio colui che fa godere la pace ad un’intera provincia, reprime le violenze, custodisce la giustizia e con le sue leggi e con i suoi ordini stabilisce che cosa debbono tare gli uomini? La grandezza della virtù di un re appare anche dal fatto che questi più di ogni altro agisce a somiglianza di Dio, perché fa nel regno quello che Dio fa nel mondo: e per questo nell’Esodo (XXII) i giudici del popolo sono chiamati «dèi».
Anche presso i Romani gli imperatori erano chiamati «dèi». Ora, una cosa è tanto più accetta a Dio quanto più si avvicina all’imitazione di Lui: perciò anche l’Apostolo ammonisce (Efes., V, I): «Siate imitatori di Dio come figli affezionatissimi». Ma se, stando al parere del Sapiente, ogni animale ama il suo simile per il fatto che le cause hanno una qualche somiglianza con il causato, ne consegue che i buoni re sono molto accetti a Dio e molto degni di premi da parte Sua.
Ugualmente, per servirmi delle parole di San Gregorio: «Cos’è questa tempesta del mare se non la tempesta dell’anima? Col mare calmo anche un inesperto dirige bene la nave, ma quando il mare è sconvolto dalla tempesta anche il navigatore esperto si confonde»[1]; perciò spesso capita che nell’esercizio del governare si perda l’abitudine alle buone opere che si aveva nella tranquillità. Infatti è molto difficile, come dice Sant’Agostino, che i re, fra le parole degli esaltatori e degli elogiatori e gli ossequi di chi si prostra troppo umilmente, non inorgogliscano, ricordandosi sempre di essere uomini. E nell’Ecclesiastico (XXXI) si dice: «Beato l’uomo che non è andato dietro all’oro e non ha sperato nei tesori della ricchezza; che poteva impunemente trasgredire e non ha trasgredito, che poteva fare il male e non lo fece». Cosicché, quasi provato nella pratica della virtù, venga riscontrato fedele. Perciò secondo il proverbio di Biante, il principato manifesta l’uomo. Molti infatti, che sembravano virtuosi finché rimasero di umile condizione, abbandonarono la virtù appena pervennero al vertice del principato. Dunque la stessa difficoltà a ben operare, che grava sui prìncipi, li rende degni di un premio più grande; e se qualche volta per debolezza peccano sono più scusabili presso gli uomini, e più facilmente ottengono il perdono da Dio. Questo però se, come dice Sant’Agostino, non trascureranno di offrire al loro vero Dio, per i loro peccati, il sacrificio dell’umiltà, del pentimento e della preghiera. Ne abbiamo un esempio nella storia di Achab re d’Israele, il quale molto aveva peccato, eppure il Signore disse di lui ad Elia (III Re, XXI, 29): «Poiché si è umiliato per causa mia, non farò capitare questo male durante la sua vita». Del resto che ai re sia dovuto un premio superiore non è dimostrato soltanto dalla ragione, ma è anche confermato dall’autorità divina. Infatti in Zaccaria (cap. XII) si legge che in quel giorno di beatitudine nel quale il Signore sarà protettore degli abitanti di Gerusalemme, cioè nella visione della pace eterna, le case degli altri saranno come la casa di Davide, perché tutti saranno re e regneranno con Cristo, come le membra col loro corpo; ma la casa di Davide sarà come la casa di Dio; poiché, come governando fedelmente esplicò le funzioni di Dio sul popolo, così nel premio sarà più vicino a Dio. Questo fu in qualche modo intravisto anche dai pagani, i quali immaginarono che i reggitori e i salvatori delle città venissero trasformati in dèi.
[1] Citato nel testo ma non indicato né reperito.