PROFILI D’ARTE: Laura Marcucci Cambellotti
Come il filo nella cruna d’un ago, in silenzio, ha tessuto la sua vita lungo l’arco del “secolo breve” varcando a passi leggeri il terzo millennio, Laura Marcucci in Cambellotti, nata a Roma il 21 novembre del 1912, ha tagliato, lo scorso anno, il traguardo dei 106 anni nella sua casa di campagna a Lanuvio, la sua storia continua.
Papà Alessandro (1876-1968) fu un artista-educatore, legando il suo nome all’opera di alfabetizzare dell’Agro Romano, palude di miseria e malaria, punteggiato da villaggi di capanne privi d’ogni servizio, scuole comprese. Un popolo senza voce di braccianti, taglialegna, contadini, pastori sfidava la natura ostile, le zanzare e i padroni per pura sopravvivenza, tirando su accampamenti indiani di Lestre (primitivi ricoveri di canne) con un solo spazio circolare o ellittico adibito a tutto. Chi scrive queste righe ha insegnato a Colle di Fuori, frazione di Rocca Priora, dove nel biennio 1912-‘14, su progetto di Marcucci, fu costruita la prima scuola in muratura dell’Agro Romano per i “capranicotti” (operai originari di Capranica Prenestina). Anche gli arredi furono opera di Alessandro coniugando design, ergonomia e gioco forza i costi. L’amico, futuro consuocero, Duilio Cambellotti compose le splendide tavole decorative delle aule, le sei formelle in ceramica invetriata del timpano esterno e realizzò la campana laica che chiamava i bambini al cominciar delle lezioni. La sorella di Alessandro, Elisa, pulcherrima, aveva sposato quell’Etna futurista di Giacomo Balla, mentre la figlia Laura, Adriano Cambellotti, primogenito di Duilio. In un nido di artisti le fu fisiologico vocarsi alla pittura, diplomandosi all’inutile Accademia di Belle Arti (“L’accademia dovrebbe tirar fuori degli artisti, ma non è mai così”).
Col matrimonio (nel ’38), iniziò la sua nova vita: sposa, madre di tre figli ma sempre col sacro furore dell’arte nelle vene, assorbì la contaminazione del suocero volgendosi dal decorativismo paterno al naturalismo stilizzato con evocazioni al tardo futurismo. Soprattutto da Duilio assorbì il modus artem faciendi della tradizione romana, cioè arte come espressione operativa dell’essere, il saper fare con idee, tecnica e sapienza manuale si tratti d’ un gioiello, un dipinto, un abito, una scenografia.
I campi dei suoi interessi erano terre brulle da dissodare per piantarci e portare in fiore le Begonie, così dalla ritrattistica (quasi tutta al femminile), colse la sfida del design, della scenografia (in simbiosi col marito), della scultura come dei costumi, dell’oreficeria (suoi i gioielli per Liz Taylor in Cleopatra). Arte a tutto campo a scandagliare, da Alice curiosa, le mille possibilità della creazione con testa, coraggio e mani giammai per apparire ma solo per dare concretezza ai sogni. Parafrasando un famoso aforisma di Martin Heidegger potremmo dire di lei: “La grandezza di una donna si misura in base a quel che cerca e all’insistenza con cui ella resta alla ricerca”, è il suo caso.
Certo i doveri familiari le negavano il tempo, la libertà piena di dedicarsi alla sua vocazione ma questa la chiamava a ritagliarsi momenti d’ abbraccio all’amante gelosa vestisse l’abito chic delle Arti maggiori al pari di quello da cenerentola delle minori.
Al cavalletto il suo genere erano i ritratti o quei paesaggi incontaminati dell’Agro Romano succhiati con gli occhi da bambina per mano del papà, quelli, per intenderci, già immortalati dal Gruppo de I XXV, un mondo di sublime desolazione di cui G. Cena aveva detto:” Siamo andati verso la storia e abbiamo trovato la preistoria”. Laura ha solcato l’Italia delle due guerre, quella della rivoluzione fascista e quella del dopoguerra, dalla monarchia alla Repubblica viaggiando leggera sulle ali della sua ricerca d’artista fino a planare, a metà degli anni ’70, alla sua Itaca: l’arazzo, definizione, a suo dire, impropria perché è pittura ad ago. Veste i panni di una Penelope afflitta da una malattia agli occhi e allora tesse quadri di lana colorata affinando di continuo il suo stile cioè operando con sapienza a togliere il superfluo per giungere all’essenza lirica della composizione, il suono puro di colori e linee graziati d’ogni inutile orpello, realismo magico deco di un sogno vissuto senza risvegli.