Hobsbawm ci ha salvati

 

Hobsbawm ci ha salvati

Esiste una branca della Storia che si chiama “Storia della storiografia”. Essa, lungi dall’essere la scienza del collasso su sé stessi, è lo studio delle tendenze storiografiche, cioè “come noi interpretiamo e scriviamo la Storia” e come cambia questo sentimento e questa attitudine.
La storia della storiografia (che partirebbe dai greci, i quali si premuravano spesso di spiegarci perché il loro predecessore avesse scritto di questo, o di quello) ci dice che più siamo vicini al fatto in esame più diamo valore ad elementi locali, particolari, ai legami personali, alle connessioni micropolitiche, alle casualità. Più ci allontaniamo più assumono valore i processi, le inevitabilità, i sistemi e così via.

Chi fa Storia (da chi raccoglie e traduce i documenti sui fogli sparsi negli archivi a Barbero o Cardini) non la fa per sé stesso: la produce per la società. Se la società non recepisce la Storia questa non serve a molto. Si intendano qui “Storia”, “ricezione” e “società” nel senso più ampio possibile. Ora, chi fa Storia non sempre la divulga, e chi la divulga non sempre la insegna, e chi la insegna quasi mai la fa. Questa segmentazione, lungi dal risolvere i problemi ne crea sempre di nuovi e di difficili, perché esalta la particolarità e crea figure in lotta (epistemologica e docimologica) tra loro. Si aggiunga, di sfuggita, che tale segmentazione non ha un esclusivo valore epistemologico, ma anche morale ed etico. Quale influenza ha, ad esempio, una urgenza percepita rispetto ad una sintesi che si crede sia necessario fare? Se la Storia è “magistra”, non ha forse questo implicazioni morali e, ipso facto, dirimenti? A quale forza può resistere uno storico mediocre se pure Mommsen non si trattenne dal tratteggiare Augusto con certe pennellate indulgenti per mettere nero su bianco un “suo” salvatore della Germania a lui contemporanea? La storia, pertanto, non collassa solo sulla linea di faglia “Noi” contro “loro”, ma anche sulla linea “opportuno” contro “urgente”.

Presi tutti questi “Ma”, la Storia ha i suoi “Luoghi” in cui viene prodotta. Con buona pace degli egostorici la Storia, usualmente, si fa nell’iperuranio delle accademie. Gli storici che maneggiano le fonti si ritrovano con gli storici che le sanno leggere e con gli storici che ne sanno cavare il senso e producono i testi che compendiano tali conoscenze. Se non producono alcun testo producono dibattiti, i quali creano passioni, le quali poi creano autori che scrivono i testi.

“Il Secolo breve” di Hobsbawm, che è diventato “La scimmia nuda” della Storia contemporanea ha assunto questa funzione. Non voglio immaginare, per un professore di Storia, spiegare la Storia novecentesca negli anni ’80. Egli (senza colpa) si sarà perso tra i rivoli di elezioni, comizi, scandali, fatti militari per spiegare eventi e flussi che a noi, invece, ormai paiono chiari e limpidi. La fiducia paradossale di Paulus o le simpatie naziste di Edoardo VIII sono ora oggetto di appassionati specialisti.
Categorie come “Età dell’Oro”, “Età della frana” ci hanno consegnato tutti questi dati opportunamente omogeneizzati. Semplificati, non sempre precisi, ma con una giusta dose di utilizzabilità finale.

In definitiva Hobsbawm ci ha salvati. Nel caso della storia globale novecentesca la cinghia di trasmissione Accademia-storici-divulgatori-media-scuola-popolo è partita, seppur “scarrettando”. Ma siccome questo non è un panegirico ad Hobsbawm la notizia è: per quanti ambiti e temi ci manca un “Secolo breve”? Mondo islamico, mondo cinese, biotecnologie, storia dell’economia, storia dell’Europa: tutti questi temi sono rimasti, digeriti ma non capiti, in uno degli interstizi; o bloccati nelle aule universitarie od addirittura nell’Olimpo delle riviste e dei comitati scientifici.
Una delle tre buone battaglie della Storia nel nuovo millennio (insieme alla ridefinizione del suo statuto epistemologico ed al rapporto con la ideologia) è esattamente questa: e ne va della sua sopravvivenza.

Torna in alto