[In foto: Testo autografo de l’Infinito di Giacomo Leopardi]
Duecento anni dall’Idillio breve “L’Infinito” di Giacomo Leopardi, la lirica più nota, studiata, recitata del poeta di Recanati, ispirata da quell’ermo colle Tabor sul quale il giovane poeta era uso recarsi a meditare o meglio a rifugiarsi in se stesso lasciando a riposo le sudate carte della biblioteca di papà Monaldo, quanto la propria condizione di emarginato.
Il prossimo 28 maggio alle ore 11.30 il MIUR, in sinergia con Casa Leopardi, ha messo in piedi un flash mob trasversale a tutte le scuole d’Italia per celebrare la ricorrenza del Canto XII. Un’iniziativa trash, a nostro dire, perché la locuzione scelta designa una manifestazione improvvisata, senza scopo apparente, generatasi sui social, della durata d’ una frazione di tempo, un vecchio mordi e fuggi insomma. Ci sembra un non-sens inappropriato, irriverente verso quel breve componimento poetico (15 endecasillabi non rimati) che merita, senza condizionale, una profondissima quiete per riflettere sull’amato silenzio ricercato dal poeta, non già sul frinire superfluo di cicale dall’ ignoranza ruggente, quella della smartphone generation. Sono così densi di riflessioni, sen-sa-zio-ni quei versi da spingerci con magia fin sull’orlo del sublime, orrore dell’abisso ove per poco il cor non si spaura. Quel frusciar della siepe è l’unica voce che frusta il silenzio, la Natura lusinga la forma dei pensieri, poi la scioglie, lo fa con una carezza, però il poeta non si lascia blandire dalla quella quiete assopendosi in pace all’ombra silvana come nelle egloghe pastorali. Non v’è l’estasi del riposo onirico, al contrario egli rivive nel suo ego l’archetipo dell’uomo primitivo ruminante sull’esserci e il suo significato, cogliendo al fine la risposta plausibile con la facoltà mentale di crearsi immagini senza spiegazioni, gli dei, muovendosi liberamente tra i sensi e l’intelletto.
L’Infinito è un canto religioso, non confessionale, sembra la proiezione di un punto al di fuori della propria retta madre per abbracciarne il senso, discernerne l’inizio e la fine, ma quel puntino stesso si scopre orfano spaesato riconquistando il suo posto per lasciarsi andare al suo scorrere infinito. Il refolo di vento, il sipario vibrante della siepe, quello spicchio d’orizzonte che pur egli intravede, mira, nel pensier gli finge l’indeterminatezza del tempo quanto degli spazi e gli sovviene quel contrasto tra le morte stagioni trascorse e future (periranno) e la presente ch’è viva, pulsante coi propri suoni. Dalle sensazioni colte potrebbero germogliarne deduzioni, afferrandosi alle maniglie della scienza o alla storia del pensiero, ma per tradurre quell’attimo appaiono strumenti inutili, il poeta è l’aedo della nudità umana, condizione ineluttabile del Pánta rheî d’ Eraclito. Le gabbie nella vita si susseguono divenendo sempre più strette, all’uomo resta la facoltà di uscire dalle sbarre con l’unica chiave dell’immaginazione, riscoprendo la magia alchemica del fanciullo con gli occhi sgranati, preso a creare castelli e disfarli con l’arma della fantasia, sono rappresentazioni vissute come autentiche, vere, è il processo salvifico dell’arte.
In lui non c’è dualismo platonico tra materia e spirito, entrambi si fondono completandosi a vicenda, indispensabili a tessere quel magico tappeto volante capace di liberarci dalle stringhe del presente, guidandoci, lui, in alto a perlustrare stupiti altre dimensioni dell’essere. Quel E mi sovvien l’eterno ci testimonia appunto l’anelito del poeta a trascendere quell’hic et nunc, per lui d’ amara solitudine, la stessa di Van Gogh, lasciandosi trasportare dal fluire delle onde, dismessi i panni sulla scialuppa della ragione, conviene abbandonarsi all’infinito senza remore.
Solo allora diviene dolce il naufragar in questo mare contemplando l’unica certezza lieve, mutevole: l’esserci comunque per sempre nell’ immensità.