L’albero della vita di Amerigo Grilz, detto “Ruga”, è un Muthongo gigante, alla sua ombra, avvolte dalle radici riposano le ossa del primo giornalista ucciso, nel secondo dopoguerra, su un fronte di battaglia. Non vive ei forse anche sotterra, quando/gli sarà muta l’armonia del giorno s’interrogava, nei Sepolcri, il Foscolo pensando alle spoglie degli eroi, Sol chi non lascia eredità d’affetti/poca gioia ha dell’urna; vagherà “animula blandula” scomparendo, senza eredi, nel nulla della memoria comune. Perché noi, i più, moriremo ciascuno nella propria S. Anna (cimitero di Trieste) lasciando al tempo il compito di macerare le umane preghiere, quei pigolii di figli o stiepiditi amori, poi la ruota girando, estinguerà i ricordi nell’infinito silenzio. Scriveva ancora il poeta di Zante: Ahi! su gli estinti/non sorge fiore, ove non sia d’umane/ lodi onorato e d’amoroso pianto. Così è stato per Almerigo dopo quindici anni, l’omaggio sacro di chi l’ha conosciuto onorandone la memoria col documentario di Gian Micalessin, L’albero di Almerigo, viaggio testardo dei suoi amici reporter a ritrovare il suo sepolcro, bagnare la terra, accendere il fuoco santo resuscitando il suo spirito.
È vero che l’aura degli eroi li rende visibili nel tempo, è lì il germogliare perenne del mito che li avvolge rendendoceli amici fraterni, pur senza averli conosciuti, perché essi incarnano l’immaginario d’essere altri, guardiani come loro delle stelle, stimando inutile, grigio l’esserci nel mondo da negletti normali.
La guerra nelle piazze per l’italianità di Trieste, gli scontri (evviva!) contro i figliastri degli infoibatori, ciclostile, volantini, disegni, comizi, FDG, poi o.d.g. nel Consiglio comunale di Trieste, fanno memoria sì ma erano la piccola realtà filtrata dal buco della serratura. Troppe scorie del passato bagnavano le ali di chi aveva girato l’Europa per capire i fermenti d’una generazione di ribelli. Così Almerigo Grilz ha mollato quel nido caldo, promettente, della sua città di mare, una carriera politica già sugosa di successi, un futuro magari da parlamentare, una laurea incorniciata, c’era tutto ma la Bora l’ha portato lontano armato d’una cinepresa poggiata da bazooka sulla spalla a riprendere-sparare pel mondo immagini di guerre scomode. La morte sovente è una sorpresa, un knockout improvviso, non ti lascia il sorso d’un momento, così per Almerigo calatosi da anni nel crepitio sordo della notte al cui termine incontrerà la fine a soli 34 anni a Caia in Mozambico, era un mattino di guerriglia quel 19 maggio 1987. Ma sorella morte a volte è persino coerente se a colpirlo alla nuca fu una pallottola rossa dei governativi della FRELIMO mentre lui, da giornalista, era a filmare gli attacchi dei ribelli della RENAMO.
Era partito per questa vocazione all’avventura da Corto Maltese di Trieste, per fissare negli occhi la guerra ovunque stendesse la sua falce. Era un freelance nell’Afghanistan del comandante Massoūd, i moujahidin straccioni contro l’orso dell’Armata Rossa e poi via, via, tutti i fronti bollenti, dal Libano alla Cambogia di Pol Pot, alla Birmania fino alle Filippine dell’ Aquino filmando sempre i sentieri di Caino con una visionarietà che hanno solo i geni. Oltre trent’anni fa aveva intuito il futuro dell’informazione, la sua globalizzazione, perché l’immagine è quello che un articolo vorrebbe evocare nel lettore, essa testimonia la realtà nuda da superfetazioni, circola velocissima senza traduzioni, è la punta secca di un dardo lanciato negli occhi del mondo.
I reportage della sua Agenzia Albatross erano oro fino per la CBS, France 3, NBC, Sunday Times, Der Spiegel meno che per i network italiani, la macchia nera del fassista ne faceva un indiano chiuso nella riserva. Solo nel 2017 la sua città natale gli ha dedicato una mostra non senza lo scontato rigurgito d’infamie della banda rossa cui farebbe bene riflettere su quanto disse il maggiore del FRELIMO filosovietico Victor agli amici d’Almerigo: «Ero il comandante di Caia, forse c’ero pure io a sparare al tuo amico, ma ci tenevo ad aiutarti perché la guerra è finita e a nessuno interessa più se un giornalista stava con noi o con i nostri nemici. I morti sono tutti fratelli».
Qui invece non è cambiato niente. Kwhaeri Almerigo, addio Almerigo.