De Regimine Principum [14]: confronto fra il dominio sacerdotale e quello regale – seconda parte

 

De Regimine Principum [14]: confronto fra il dominio sacerdotale e quello regale – seconda parte

È indizio di questo il fatto che sono parti della moltitudine associata soltanto quelli che stanno in reciproca comunione di vita nel bene. Se infatti gli uomini si associassero soltanto per vivere, gli animali e gli schiavi sarebbero anch’essi parte del consorzio civile. Se invece si associassero per acquistare ricchezze, tutti quelli che commerciano insieme formerebbero un’unica città. Al contrario vediamo che sono contati come un unico popolo soltanto coloro che sono ordinati al ben vivere sotto le stesse leggi e lo stesso governo.

Ma poiché l’uomo, vivendo secondo virtù, è ordinato a un fine ulteriore che, come abbiamo detto prima, consiste nella fruizione di Dio, è necessario che la moltitudine umana abbia lo stesso fine dell’uomo singolo. Dunque l’ultimo fine della moltitudine associata non è vivere secondo virtù, ma pervenire alla fruizione di Dio attraverso una vita virtuosa.

Ora, se a questo fine si potesse pervenire con la sola forza della natura umana, sarebbe necessariamente compito del re condurre gli uomini a questo fine. Infatti riteniamo che si possa chiamare re colui al quale è affidato ciò che è al primo posto nel governo delle cose umane. Un governo poi è tanto più alto, quanto più è ordinato ad un fine ulteriore. Infatti si trova sempre che colui al quale spetta il fine ultimo comanda su coloro che compiono cose ordinate al fine ultimo. Il nocchiero, per esempio, cui spetta disporre la navigazione, comanda a chi fabbrica la nave, disponendo come debba fabbricarla perché sia adatta alla navigazione; e il cittadino che usa le armi comanda al fabbro quali armi debba fabbricare. Ma poiché l’uomo non consegue il fine che è fruizione di Dio con le capacità umane, ma per virtù divina, secondo quel detto dell’Apostolo: «Dalla grazia di Dio è la vita eterna», il condurre a quel fine non sarà compito del governo umano, ma di quello divino. Un governo di questo tipo spetta dunque a quel re che non è soltanto uomo, ma anche Dio, cioè a Nostro Signore Gesù Cristo che, rendendo gli uomini figli di Dio, li ha introdotti nella gloria celeste.

Tale governo a lui affidato non si corromperà; e a causa di esso Cristo nella Scrittura è chiamato non solo sacerdote, ma anche re, come dice Geremia (XXIII, 5): «Regnerà come re e sarà sapiente». Perciò da lui deriva il sacerdozio regale, al punto che tutti i fedeli di Cristo, in quanto sue membra, sono chiamati re e sacerdoti. Perciò il servizio di questo regno, affinché le cose spirituali fossero distinte da quelle terrene, fu affidato, non ai re terreni, ma ai sacerdoti, e in primo luogo al Sommo Sacerdote, successore di Pietro, Vicario di Cristo, ossia al Pontefice Romano, al quale tutti i re del popolo cristiano devono essere soggetti come allo stesso Signore Gesù Cristo. Cosicché a colui cui spetta la cura del fine ultimo devono essere soggetti coloro ai quali spetta la cura dei fini antecedenti; e devono essere diretti dal suo comando.

Poiché invece il sacerdozio e tutto il culto dei gentili erano per il conseguimento dei beni naturali – che sono tutti ordinati al bene comune della moltitudine, la cura del quale spetta al re – giustamente i sacerdoti dei gentili erano soggetti ai re. Anzi persino nell’antica Legge al popolo fedele erano promessi beni temporali, non dai demoni, ma dal vero Dio; perciò anche nel vecchio Testamento si legge che i sacerdoti erano soggetti ai re. Ma nella nuova Legge c’è un sacerdozio più alto, dal quale gli uomini sono guidati ai beni celesti: perciò nella legge di Cristo i re devono essere soggetti ai sacerdoti.

Per questo la divina Provvidenza meravigliosamente fece in modo che nella città di Roma, che Dio aveva previsto come futura principale sede del popolo cristiano, a poco a poco si radicasse la consuetudine che i reggitori della città fossero soggetti ai sacerdoti. Come infatti riferisce Valerio Massimo: «La nostra città pensò sempre che tutte le cose fossero da mettere dopo la religione, anche quelle in cui volle ravvisare il decoro della somma maestà. Perciò le potestà non esitarono a servire alle cose sacre, ritenendo che avrebbero avuto un buon governo delle cose umane, se si fossero costantemente e bene asservite alla divina potenza»[1], e poiché doveva avvenire che anche in Gallia prendesse moltissima forza la religione del sacerdozio cristiano, fu permesso da Dio che anche presso i Galli i sacerdoti gentili, che si chiamavano Druidi, determinassero le leggi per tutta la Gallia, come riferisce Giulio Cesare nel suo De Bello Gallico. 

 

 

 

 

 

 

[1] Citato nel testo ma non indicato né reperito.

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