Scuola di Pensiero Forte [54]: l’identità della comunità – l’etica comunitaria (1)
La strutturazione dell’identità della comunità significa anche la presenza di un’etica comunitaria.
Introduciamo con un ampio discorso questa trattazione, perché riteniamo che sia di rilevante importanza. Lo faremo a partire da una riflessione più semplice e spontanea, quasi colloquiale, per poi andare a scorgerne i dettagli più tecnici e teorici. Come scriveva Chesterton, infatti, “Tutte le verità che un uomo ha trovato come uomo di scienza, sono leggermente diverse dalle verità che ha trovato come uomo; perché la famiglia, gli amici, le abitudini, l’atmosfera sociale di un uomo hanno già avuto su di lui la loro influenza, prima che egli abbia imparato teoricamente cosa alcuna.”[1]
Più o meno, tutti noi facciamo esperienza di vita comunitaria. Vivere in comunità significa, anzitutto, abbandonare la prassi contrattuale e societaria del do ut des per abbracciare l’etica impersonale del dono, quella che ci spinge a coltivare l’azione priva di ricompensa, spogliata di ogni soggettività e di ogni dilatazione edonistica. Si tratta di mettere in atto una logica che ha sempre un che di rivoluzionario: il dono completo è la massima fonte di gioia, perché spinge il singolo a deporre ogni vanità, a spalancare il cuore e far tacere la mente, a compiere un passo verso quella rivoluzione delle anime che suggella il trionfo del sangue sull’oro e dello spirito sulla materia.
Questo dinamismo abnegazione trova la sua possibile realizzazione solo in una tipologia di relazioni comunitarie nelle quali si manifestano i caratteri propri dell’identità comunitaria di cui abbiamo trattato nelle righe precedenti. Chiaramente ce lo ricorda Weber “Una relazione sociale deve essere definita comunità (Vergemeinschaftung) se e nella misura in cui la disposizione dell’agire poggia, nel caso singolo o in media nel tipo puro, su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) degli individui che ad essa partecipano”[2].
In questo senso la massima di Seneca che D’Annunzio ha riportato sul “Vittoriale degli Italiani” è emblematica: Io ho quel che ho donato. Ciò che conta, alla resa dei conti – perdonate il gioco di parole -, non è ciò che possiedo, ma ciò che offro; non ciò che si ha, ma ciò che si dà. Siamo davanti ad un’attitudine decisamente non conforme in un mondo che determina le proprie gerarchie sulla base del profitto. E questo perché il dono richiama la reciprocità, che è una splendida forma di solidarismo, in antitesi rispetto al calcolo borghese e all’individualismo galoppante.
Non è un caso che molte grandi civiltà – come ci insegna Marcel Mauss[3] – si siano sono rette per secoli su pratiche incentrate sul dono e sull’idea di una circolarità non mercantile. Bisogna poi tenere presente che il dono ha il potere di ricordarci la meravigliosa utilità dell’inutile, insegnandoci a ritrovare noi stessi attraverso il contatto con le piccole cose: perché ciò che è davvero utile – e che quindi ci rende migliori – non è necessariamente remunerativo. Il dono, nella comunità, è anche quello di offrire il nostro tempo: quando dono una giornata al Bene comune, mi riapproprio di quel tempo che la modernità ha letteralmente sacrificato sull’altare della produttività, del meccanismo astratto e dell’immediatezza.
Sebbene, infatti, si dia per valida quella fraternità di spirito che accomuna persone del medesimo rango e della stessa tempra, non si deve abbandonare il richiamo ai legami di sangue, che necessitano di essere difesi dalle degenerazioni di una società multietnica fondata sull’ibridazione e tesa alla mescolanza. Perché la Comunità non è soltanto quella delle nostre idee, ma anche quella del nostro Popolo e questo, piaccia o meno ai cultori del meticciato, possiede anche una propria identità etnica.
Affermare questa verità, che è perfettamente naturale, è diventato addirittura pericoloso, ma non dobbiamo dimenticare che il mondo non lo fanno da sole le buone intenzioni, ma i popoli e le stirpi. Oggi siamo preda della follia dell’intercambiabilità: non si è più uomini, donne, madri o padri, perché perfino il genere sessuale è diventato un odioso retaggio, che chiunque può rimuovere o cambiare a seconda dell’umore. Non si nasce più in un certo modo, ma si sceglie di essere ciò che ci piace.
È l’apogeo dell’antitesi della politica, del Bene comune, della autentica felicità, sia individuale che collettiva. L’inganno universale, come diceva Orwell, tempo in cui “dire la verità diventa un atto rivoluzionario”[4].
Le evidenze biologiche e naturalistiche, quindi, vengono cancellate in nome di un pericoloso sradicamento. Un approccio identitario al mondo non implica la discriminazione in senso negativo e dispregiativo dell’altro da sé ma, al contrario, l’intimo rispetto delle differenze e dei limiti che configurano le identità: io mi definisco anche grazie a ciò che mi è diverso, e definendomi traccio una linea di demarcazione. Oltre quella linea, superato quel limite, non sono più me stesso. Quel confine, da sempre, è dettato anche dal sangue.
[1] Gilbert. K. Chesterton, L’osteria volante, BUR, Milano 1962, p.146.
[2] Cfr. Max Weber, Economia e società, Donzelli, Roma 2016
[3] Marcel Mauss (Épinal, 10 maggio 1872 – Parigi, 10 febbraio 1950) è stato un antropologo, sociologo e storico delle religioni francese, massimo esponente della scuola di Émile Durkheim.
[4] Cfr. George Orwell, La fattoria degli animali, Mondadori, Milano 2016.