“No extradition to China”

 

“No extradition to China”

Il comunismo ha un mono protocollo: lo stalinismo. Ovunque garrisca il pentacolo rosso simbolo (massonico) della presa di potere marxista-leninista, lo Stato si scioglie nel grande fratello del Partito, diritti & libertà sono peccati mortali senza assoluzione, la penitenza è il carcere o la “rieducazione”. “Il comunismo non è amore. Il comunismo è un martello che usiamo per schiacciare il nemico”, quest’aforisma di Mao ci rammenta la prassi della garota repressiva contro il dissenso, piaga purulenta della democrazia occidentale. Affermava nel suo 2° intervento all’ONU Ernesto Che Guevara: “Dobbiamo ripetere qui una verità che abbiamo sempre detto davanti a tutto il mondo: fucilazioni; sì, abbiamo fucilato; fuciliamo e continueremo a fucilare finché sarà necessario”. I fatti di questi giorni testimoniano questa metodica applicata, ora, alla rivolta studentesca di Hong Kong contro la legge sull’estradizione all’esame del Consiglio Legislativo della Regione, ex colonia britannica, svenduta alla sovranità cinese dal ‘97. La scusa menzognera è nell’estradizione a Taiwan d’un imputato omicida; ah no, bisogna cogliere la palla al balzo per cambiar legge, introducendo l’obbligo d’estradizione solo verso la Repubblica Popolare Cinese, un giro di torchio all’ indipendenza dell’isola semiautonoma restia, da sempre, alle genuflessioni ai diktat di Pechino. Il tallone di un miliardo di sudditi vuole schiacciare i sussulti della “rivolta organizzata” (così apostrofata dalla governatrice Carrie Lam), per ora con manganellate, proiettili di gomma, lacrimogeni e quant’altro minacciando la memoria dei ribelli che forse non ricordano piazza Tienanmen di trent’anni addietro, a voler dire che presto spareranno cannonate per riconquistare la sovranità del castello. In realtà essa ha una data: 1 luglio 2047, cinquant’anni di autonomia per il “porto profumato”, una Cina due sistemi era l’accordo col drago ma gli sciocchi non ricordano la politica comunista del salame collaudata ai tempi della guerra fredda. Per una fettina rubata non ci si scanna, per un’altra ancora non si scende in armi, così facendo uno s’ingozza, l’altro resta a secco.

Hong Kong era il gioiello più prezioso del meridione cinese, forse di tutta l’Asia, la principessa del terziario, PIL al galoppo, reddito pro capite più alto al mondo, da guinness la Borsa e il porto, qualità altissima delle infrastrutture, un diamante raro per l’appunto, così esposto in vetrina da non poter non solleticare l’acquolina dei compagni cinesi. Divenne così Regione Amministrativa Speciale, mantenendo il clichè economico, la sua borsa d’affari, una sua governance, il sistema giudiziario di matrice inglese, un proprio ordinamento scolastico, ecc. Ma il Nian (mostro mitologico) prese pian piano a mordicchiare la preda divorandone pezzetti d’ indipendenza a partire dalla conquista, ope legis elettorale, della maggioranza nel Consiglio Legislativo ove 40 membri su 70 sono dell’Alleanza Democratica per il Miglioramento e il Progresso di Hong Kong servitor cortesi della politica di Pechino. Le strade di H.K. divennero già fiumi tracimanti la protesta nel 2014 a ragione proprio della riforma del sistema elettivo, lampante interferenza della RPC nell’amministrazione della Regione. Fu la rivoluzione pacifica degli ombrelli gialli aperti per ripararsi dai lacrimogeni della polizia, 79 giorni di lotta per il suffragio universale nell’elezione dei membri del Consiglio Legislativo. Risultato: quel che abbiamo riportato sopra. Ora la maggioranza “pechinese” vuole, entro il 20 giugno, approvare la legge restrittiva sull’estradizione, una fiondata al Common Law dell’autonomo della Giustizia con interferenze pesantissime di Pechino nel voler controllare-punire gli autori di reati, compresi quelli d’ opinione, estradando gli imputati sotto la propria giurisdizione.

L’Occidente al tramonto si limita a sciorinare aforismi da manuale sui diritti umani, sotto banco poi il turbo capitalismo si prostituisce volentieri in cambio di commesse commerciali e speculazioni di borsa già saldamente nel pugno chiuso della Cina popolare. La via della seta, in nome del business, è carta vetrata, strofinandoci libidinosi le mani ci si accorge, aprendole, che sono sporche di sangue.

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