ORIZZONTI (S)PERDUTI: Jean Giono, un “pacifista” decisamente anomalo

 

ORIZZONTI (S)PERDUTI: Jean Giono, un “pacifista” decisamente anomalo

Martin Heidegger, il più grande filosofo del Novecento, amava parlare non con i colleghi o con artisti e letterati, ma con i contadini della Foresta Nera, ossia con coloro che erano a contatto con la natura e che coltivavano la terra, persone che ragionavano non attraverso concetti e speculazioni ardite, ma attraverso il ciclo delle stagioni, con gli occhi al cielo e le mani impegnate a seminare e ad arare. Quindi, sono più che convinto che Heidegger si sarebbe trovato a suo agio nel parlare con Jean Giono, il quale oltre ad essere stato uno dei letterati più originali della prima metà del Novecento, è stato soprattutto un contadino per via del suo rapporto stretto con la terra e con la natura, una sorta di David Herbert Thoreau francese, allergico alla vita cittadina e alle tentazioni mercantilistiche della società contemporanea, unicamente desideroso di trascorrere la vita, tra gli alberi e i libri, nella sua Provenza.

In fondo, Jean Giono è stato un Ezra Pound bucolico, nemico dichiarato di un sistema dominato dall’economia, generatore della spersonalizzazione, dell’essere come numero, ingranaggio insignificante e anonimo in un ingranaggio più grande; da qui la sua opera letteraria e saggistica improntata su una forma di “pacifismo” assai particolare e, in fin dei conti, viscerale e non certo frutto di una riflessione sistematica, che sviluppò tra le trincee della Prima guerra mondiale, dalla quale uscì umanamente sconfitto e traumatizzato. Un trauma, però, vissuto con lucidità, che fu determinante per la svolta che diede alla propria vita allorquando, alla fine degli anni Venti, decise di licenziarsi dalla banca dove lavorava per andare a vivere in campagna, dedicandosi unicamente alla scrittura.

E se in un primo momento Giono rimase soggiogato dalle tentazioni ideologiche del comunismo (all’inizio degli anni Trenta entrò a far parte dell’Association des écrivains et artistes révolutionnaires, di chiara matrice marxista), è anche vero che per capirne le contraddizioni non fu costretto a recarsi in Unione Sovietica come invece accadde al Celine che si leccò poi le ferite in Mea culpa. Di fronte a questo voltafaccia, gli intellettuali e i compagnons de route, come vedremo, se la legarono al dito e allontanarono Giono dall’establishment culturale dell’epoca, facendogli però un favore, visto che allo scrittore de L’ussaro sul tetto importava solo vivere nelle sue due casupole da lui acquistate nel 1939 nella zona del Contadour. Fu lì che lo raggiunse lo scoppio del secondo conflitto mondiale e, nonostante il suo pacifismo conclamato, Giono si recò a un centro di mobilitazione dove ammise che non aveva nessuna intenzione di sporcarsi le mani di sangue. Tratto in arresto, fu poi scarcerato ed esentato dagli obblighi militari.

Tornato nel Contadour, riprese a scrivere e a vivere il suo anarchismo senza sottostare a nessun vincolo, fregandosene altamente delle direttive proclamate dal Comité national des écrivains, ossia l’associazione clandestina che raccoglieva gli scrittori e gli intellettuali francesi vicini alla resistenza, che gli imponeva di non scrivere e pubblicare una sola parola al servizio del nemico. Sì, perché a partire dal 1941, Giono prese a collaborare stabilmente con il quotidiano Aujourd’hui, fiancheggiatore del collaborazionismo, e ad apparire in un ricco servizio fotografico su Signal, che lo esaltò come difensore dello spirito Blut und Boden, celebrato dalla concezione di Walter Darré. Non c’è da stupirsi, dunque, se nella notte tra l’11 e il 12 gennaio 1943 i maquis comunisti gli piazzarono una bomba davanti casa che distrusse l’uscio senza provocare vittime e se, all’indomani della fine della guerra, alla resa dei conti (quella narrata esemplarmente da Paul Sérant ne I vinti della liberazione), fu imprigionato una seconda volta con l’accusa di collaborazionismo con il nemico germanico (durante il governo di Vichy, Giono tra l’altro pubblicò uno dei suoi romanzi più celebri, Deux cavaliers de l’orage, sulle pagine de La Gerbe, altro quotidiano collaborazionista), al punto di essere trascinato in tribunale anche per aver affermato che preferiva essere «un tedesco vivo piuttosto che un francese morto».

E anche se alla fine fu scarcerato per non aver commesso alcun reato, gli appartenenti del solito Comité national des écrivains gli fecero terra bruciata intorno, impedendogli di fatto di pubblicare le sue opere in terra francese per diverso tempo. La consacrazione, come uno dei maggiori scrittori francesi del Novecento, avvenne solo a metà degli anni Cinquanta, quando la riscoperta della sua opera riuscì a superare il muro eretto dalla intelligencija sartriana. Fu allora che molti capirono che Jean Giono incarnava l’ésprit di uno “spiritualista pagano”, votato al culto atavico dell’humus, dell’“umile” inteso non nel senso degenerato dato dal Cristianesimo, ma in quello etimologico e pagano di “terra”, ossia aderente alle leggi panteiste della natura.

Mi chiedo se i nostri pacifisti di oggi, quelli con le bandiere arcobaleno e dei girotondi, molto bravi con le parole e meno con i loro stili di vita, abbiano mai letto le opere di questo pacifista così anomalo, senza peli sulla lingua, bastian contrario per eccellenza, i cui scritti ci insegnano che la nostra vita è, fondamentalmente, la nostra opera alla quale dobbiamo dedicarci con tutte le nostre forze. Non per nulla, Giono in una delle sue frasi più celebri afferma: «Noi abbiamo dimenticato che il nostro solo scopo è quello di vivere e che, vivere, noi lo facciamo ogni giorno e tutti i giorni e che a tutte le ore del giorno noi raggiungiamo il nostro vero scopo se viviamo».

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