Se n’è andato soffice nel Paradiso degli artisti il “rompiscatole” Gian Franco Corsi Zeffirelli, a 96 anni ci sta d’ obliterare il biglietto per il viaggio di sola andata nel silenzio. La sua Firenze gli ha reso onore soltanto ora, a quel figlio naturale d’un amore extraconiugale, cresciuto nel collegio del convento di S. Marco, senza il papà mercante di Vinci, senza la mamma Alaide morta precoce, “adottato” dall’ agape inglese fiorentina come ci narrava nel film Un tè con Mussolini. Fu in quel contesto di raffinata eleganza e cultura che il bambino, tra un tè verde ed una visita ai musei, sorseggiò l’aroma dell’estetica, scoprendo in sé la vocazione artistica quanto il feeling col teatro shakespeariano (Amleto, Romeo e Giulietta, la Bisbetica domata furono il suo omaggio in cellulosa al grande drammaturgo). La sua stagione d’uomo, d’artista rimanda non poco a quella d’ un altro figlio del peccato, Leonardo da Vinci, anzi taluni alambiccano perfino una discendenza genealogica tra i due, ciò che li accomuna invero è quella febbre di ricerca maniacale della bellezza immacolata, assunta anche nella propria esistenza facendo dell’opera e dell’essere una cosa sola, uno stile inconfondibile del loro linguaggio come della persona.
Una delle parabole più dure, inquietanti dell’Evangelo è quella dei talenti, saperli amministrare è oggetto di giudizio divino quanto umano. Però da noi la platea applaude o fischia secondo la contrada per quel maledetto gene del DNA dell’italico malcostume, per cui al ballo degli intellettuali sono invitati solo coloro che calzano le scarpette rosse, quelle di Zeffirelli erano bianche. I suoi zecchini d’oro sono cresciuti, lasciandoci un albero copioso di fronde tante quante furono i suoi molteplici interessi nel fare arte, sempre, comunque. Disegno, pittura, scenografia, regia, sceneggiatura, arredamento, costumi, un volo a giro sapiente dell’aquila alla ricerca, nel caos delle paludi, della preda più ghiotta della Rinascenza: il bello, quell’oro lucente di cui lui fu un maniacale minatore. Quando si spegne un sacerdote della bellezza, un poeta della forma, diveniamo tutti più poveri, non solo del suo cantico, quanto dell’essere pontifex, architetto di ponti tra la cruda terra e il Cielo. Lui ci ha rammentato che essa, la beltà, è verità, quella kalokaghatia platonica di Fidia nell’Atene di Pericle, quel filo lasciato nella Firenze medicea dai giganti del Quattrocento e Cinquecento. Ora il solo strumento nella mani d’ un artista per trasfigurare la realtà sensibile cogliendone l’essenza oltre l’apparire, è la forma perfetta, allegoria di significati trascendenti oltre l’immanenza, i quali ci rimandano al volo del tappeto magico sopra la caducità meschina dell’esserci chinati sulla terra.
L’immagine, la scena, l’abito o il proferir parola divengono epifania unica, per tanti versi ermetica, della comunicazione artistica, liturgia sacra di un sacrificio dove sacerdote e vittima sono la stessa persona, questo spiega la profonda religiosità di Zeffirelli, profeta avversato in Patria dallo gnomismo di scribacchini farisei. L’alchimia della perfezione trasposta nelle forme, fossero film oppure allestimenti d’ opere liriche o teatrali, può indurre ad iperglicemia da dolce, a un neomanierismo esteta stucchevole quasi fosse un tè troppo zuccherato, senza limone, senza l’aspro della cruda realtà sociale incanalata nel messianico storicismo materialista. E’ qui la forbice aperta tra il “classico” di Zeffirelli ed l’anticlassico del neorealismo, tra un’estetica sorgiva di ascensione contrapposta all’humus dei lombrichi brulicanti nel letame, Icaro o Ares, i creatori di ali o i prigioni della caverna di Platone, infinito-finito dove le catene di spazio e tempo possono essere spezzate oppure accarezzate per restarsene nella placenta conosciuta.
Occorre essere ribelli per riveder da liberi le stelle, forse per questo Zeffirelli prediligeva l’opera più censurata di Giuseppe Verdi, La Traviata, amore e morte oltre il limitare dei costumi morali d’una società ipocrita che pure al fine tocca la manifestazione d’ un amore assoluto, vittima sacrificale del pensiero corretto. La tragedia scioglie lo spirito apollineo nel crogiuolo di Dioniso ricreando quel mito greco di equilibrio unico tra armonia melodiosa ed ebrezza, tra via secca e umida per gustare il sapore della vera conoscenza. Francesco e Chiara di Zeffirelli sono questo, dalla terra spiccano il volo verso un Dio negato dagli affari quotidiani, dallo stazzo dove crescere belanti al sicuro d’ogni patimento, il balzo in alto è quell’eresia che li rende diversi, magari amabili al pauperismo rossastro ma la trascendenza no! Resta estranea al viver comune d’una società tecno-positivista, l’uomo sì il santo meno come nelle pieghe di Francesco giullare di Dio di R. Rossellini. E’ la scelta di P. P. Pasolini di guardare all’umanità di Cristo nel Vangelo secondo Matteo non potendo o volendo inoltrarsi nella sua altra natura, lettura parziale di liberazione dalla prigione del sistema, dai suoi giudizi e regole morali, dall’asfissiante ipocrisia del mondo, ma c’è ben altro nel discendente di David. Per narrarlo c’è bisogno di afferrare la bellezza della sua parola incarnata nella verità non solo nel sacrificio ma nell’inverarsi della risurrezione. E’ travaglio verso la fede, il camminare fiducioso sulle acque del mistero per approdare alla sponda del lago al termine del viaggio e incontrarci, assiso sulla sabbia, il Gesù di Nazareth del maestro fiorentino.
Accostarsi al linguaggio di un artista presuppone umiltà e sapienza, senza i paraocchi dei muli, deponendo l’abito preso in prestito dalla scienza, il suo metodo presuntuoso con cui s’arroga il giudizio assoluto di verità, dimentica di Popper al pari dell’Ermeneutica di Heidegger e Gadamer che coglie nell’arte, nel linguaggio, l’essere o la sua unica manifestazione, acqua zampillante, sempre fresca, nuova alla quale abbeverarsi per gustarne il sapore profondo ben oltre l’apparenza.
I cortigiani untuosi e mediocri hanno in tasca un solo talento riposto sotto terra o peggio ancora venduto per un culo al caldo nel palazzo fatiscente del pensiero corretto all’anice gramsciana, di loro nulla resterà neppure il biglietto, perché inutile, senza viaggio, a trasformarsi in compost.
Gian Franco Zeffirelli fu un Icaro librato verso il sole senza però bruciare le sue ali.