De Regimine Principum [24]: il re ed il governante devono attendere al culto divino
Passiamo ora a trattare del culto divino, al quale re e princìpi debbono applicarsi con tutto l’impegno e la sollecitudine, come al loro debito fine.
Scrive in proposito il magnifico re Salomone nell’Ecclesiaste (XII,13): «La fine di ogni discorso ascoltiamola insieme: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché tutto l’uomo sta qui». E sebbene questo fine, cioè il culto divino e l’ossequio attraverso l’osservanza dei comandamenti, sia necessario per tutti, come è stato già detto, tuttavia al re è necessario in maggior misura, essendovi maggiormente tenuto per le tre qualità che sono in lui, e cioè: perché uomo, perché signore e perché re. In quanto uomo, perché creato da Dio in maniera singolare.
Infatti le altre creature Dio le creò con il solo comando, ma quando creò l’uomo disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Genesi I, 26). Perciò San Paolo negli Atti degli Apostoli (XVII, 28) riferisce le parole del poeta Arato: «Noi siamo progenie di Dio». Dunque da questo punto di vista siamo tutti debitori nei confronti della divina maestà; e questo è il primo comandamento della prima tavola. Così nel Deuteronomio (VI,4) viene detto al popolo di Israele, e quindi anche a noi, per bocca di Mosè: «Ascolta, Israele: il Signore Dio nostro è il solo Signore»; come a dire che egli è il solo a cui sono dovuti riverenza e onore, in quanto solo da lui siamo stati creati e fatti per una prerogativa singolare. Pertanto, considerata la grandezza del beneficio ricevuto, subito Mosè nello stesso punto aggiunge: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze»; volendo così dimostrare che dobbiamo a Dio tutto quello che siamo. E a riconoscimento di questo fu istituito il precetto delle decime, al quale ciascuno è tenuto, non nella stessa quantità numerica, ma in proporzione delle proprie sostanze per il motivo già detto.
Ma, sebbene tutti siano obbligati a questo, tuttavia il principe lo è di più, anche come persona privata, in quanto partecipa maggiormente della nobiltà della natura umana, a causa della stirpe da cui trae origine e nobiltà, come prova Aristotele nella Retorica. Mosso da questa considerazione Cesare Augusto, cioè Ottaviano, – come narra la storia – non tollerando gli onori divini che gli venivano conferiti dal popolo romano per la bellezza del suo corpo e per la bontà del suo animo, domandò alla Sibilla Tiburtina chi fosse il suo creatore; lo trovò e lo adorò; e proibì con pubblico editto che qualcuno del popolo romano lo adorasse, o lo chiamasse Signore o Dio.
Ma ancora di più il re è tenuto al culto di Dio in quanto signore, «perché non vi è potestà se non da Dio», come dice San Paolo nel XIII capitolo della Lettera ai Romani; cosicché egli fa le veci di Dio in terra, come abbiamo già detto. Perciò tutto il potere di chi comanda dipende da Dio, essendo quello di un Suo ministro. Ma dove c’è dipendenza nel dominio è necessario il rispetto verso il superiore, perché l’inferiore in sé non è nulla, come accade ai ministri delle curie regali. Per questo motivo nell’Apocalisse ogni volta che si tratta del ministero degli spiriti celesti – che vengono presentati o come seniori, perché più perfezionati nell’agire, o come animali i quali subiscono l’azione più di quanto non agiscano, sotto la potente irradiazione divina -, di essi si aggiunge che «si prosternarono al suo cospetto, e adorarono Dio». E questi sono due atti di latria, cioè del culto divino.
Ed ecco perché il famoso Nabucodonosor, monarca in Oriente, come è scritto nel Libro di Daniele (IV,22), poiché non aveva riconosciuto che il suo potere proveniva da Dio, nella sua immaginazione fu trasformato in bestia, e gli fu detto: «Sette tempi trascorreranno sopra di te, finché riconosca che l’Altissimo impera sopra il regno degli uomini e lo affida a chiunque vuole».
Ammonito di ciò, – come narra la storia – Alessandro Magno nell’invadere la Giudea con l’intenzione di distruggere la regione, mentre si avvicinava a Gerusalemme adirato, vide venirsi incontro il Pontefice sommo vestito di bianco insieme ai ministri del tempio; allora si fece mansueto e, sceso da cavallo, lo riverì, quale ministro di Dio; ed entrato nel tempio lo onorò con grandissimi doni, e donò a tutto quel popolo la libertà, per riverenza verso Dio.
Il re inoltre non solo è tenuto al culto divino come uomo e come signore, ma anche come re, perché i re sono unti con olio consacrato, come risulta chiaro nel caso dei re del popolo di Israele, che venivano unti con olio santo dalle mani dei Profeti: perciò erano anche detti unti del Signore, per eccellenza di virtù e di grazia in unione con Dio, delle quali dovevano essere dotati.
Per questa unzione essi ottenevano un certo ossequio e un certo conferimento d’onore. Ecco perché Davide, avendo tagliato la clamide del re Saul, si percosse il petto in segno di penitenza, come è scritto nel primo Libro dei Re. Sempre il re Davide, come pianse con lamenti la morte di Saul e di Gionata, così deplorò l’irriverenza degli Aliofili, perché avevano ucciso il re Saul, senza tener conto, come è scritto alla fine del secondo Libro dei Re, che egli era stato unto con l’olio.
Di questa consacrazione troviamo un altro argomento dalle gesta dei Franchi, sia dall’unzione di Clodoveo, primo cristiano tra i re dei Franchi, fatta da San Remigio, sia dal trasporto dell’olio dal cielo, per mezzo di una colomba; e con quest’olio fu unto il re suddetto; e vengono ancora unti i suoi successori con segni e prodigi e guarigioni di cui essi sono portatori a causa di codesta unzione.
Inoltre, poi, come dice Sant’Agostino nella Città di Dio, l’unzione era figura del vero re e sacerdote, secondo quanto dice il profeta Daniele (IX): «Quando verrà il Santo dei Santi, cesserà la vostra unzione». Dunque, poiché nell’unzione raffigurano colui che è «Re dei re e Signore dei dominanti», come dice l’Apocalisse (XIX), che è Cristo nostro Signore, i re sono tenuti ad imitarlo, affinché sia rispettata la debita proporzione della figura col figurato, dell’ombra col corpo: e in tale imitazione è incluso anche il vero e perfetto culto verso Dio.
Risulta dunque chiaro come sia necessario per qualunque signore, ma soprattutto per un re, essere devoto e reverente verso Dio, per la conservazione stessa del proprio stato: e di ciò possiamo trarre un esempio dal primo re di Roma, Romolo, il quale, come la storia tramanda, agli inizi del suo governo nella città di Roma, fabbricò un asilo che chiamò tempio della pace e lo dotò di molti privilegi. Per il dio (ivi adorato) e per rispetto verso di esso il tempio rendeva immune ogni scellerato – di qualunque stato fosse – che ci si rifugiasse. Quale sorte abbiano avuto poi i suoi successori che furono negligenti nel culto divino e quelli che invece furono solerti, lo scrive Valerio Massimo all’inizio della sua opera.
Che dire poi dei re zelanti del culto divino, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento? Infatti tutti quelli che furono solleciti nel riverire Dio, terminarono felicemente il corso della loro vita; quelli che si comportarono nella maniera opposta, ebbero una fine infelice.
La storia infatti racconta che in ogni monarchia dagli inizi dei tempi si accompagnarono a vicenda queste tre cose, e precisamente nell’ordine: il culto divino, la sapienza e la potenza secolare. Ora, queste tre cose si ottengono secondo l’ordine suddetto, come si riscontra nel re Salomone, per i suoi meriti. Infatti dopo essere stato proclamato re, mentre scendeva verso Ebron, luogo di preghiera, ottenne la sapienza, e in forza di queste due cose, ottenne il predominio sui re del suo tempo nella potenza regale. Quando invece si allontanò dal vero culto di Dio, ebbe una fine infelice, come risulta dal terzo Libro dei Re.
Abbiamo così trattato in questo libro precisamente di quelle cose che riguardano il governo di qualsiasi Stato, ma specialmente di quello regale.