[RECENSIONI]: “Una donna tra due divise” di G. T. Oppo
Quanto costa rimanere umani quando tutto intorno si scatena la ferocia belluina! Quanto si deve penare per restare sé stessi e non perdersi allorché fuori infuria la legge dell’arbitrio e della sopraffazione! Quanto è facile smarrire buon senso, raziocinio e sinderesi laddove ovunque regna la follia più cieca! E che follia! Nientedimenoché l’acme del secondo, rovinosissimo, conflitto mondiale. Facile dire <anche se tutti noi no…>, quando soffia il vento della più feroce delle tempeste e tu sei un’esile fogliolina che ha avuto la sfortuna di nascere proprio lì, al momento sbagliato e nel posto sbagliato.
Verrebbe voglia di parafrasare la celebre canzone di Franco Battiato “Bandiera bianca”: <Com’è difficile restare calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore…>. D’altronde l’antica saggezza degli arabi non lascia spazio a dubbi. Il Jijhad più importante, il più “eroico” e significante, non è quello combattuto contro l’avversario esterno (il piccolo Jijhad, appunto), bensì quello condotto all’interno di sé stessi, contro le proprie manchevolezze, le proprie meschinità, avverso i propri egoismi, le paure, le tentazioni più irresistibili e, proprio per questo, più rovinose (il grande Jijhad).
Il concetto è ancor più significativo se il Jijhad in questione è quella sorta di sterminata macelleria messicana che ha avuto come teatro privilegiato l’intero Stivale. In particolare la costa versiliese, corrusco teatro d’inenarrabili atrocità. Potrebbe risolversi in queste semplici note il plot narrativo del romanzo scritto da Gabriele Tristano Oppo “Una donna tra due divise”, collana Nuove Scritture, Tabula Fati edizioni, 536 pagine.
L’io del racconto, per i primi due capitoli, è un personaggio di sesso maschile, Armando Fiorani, un tenentino del X Battaglione della Divisione Paracadutisti Nembo, fresco di laurea in medicina e chirurgia. Armando ha avuto un’infanzia difficile, poiché sua madre è la tenutaria di un celebre bordello dislocato nel pieno centro di Firenze. Facile immaginare cosa possa avere significato questa circostanza e quanto abbia marchiato con l’indelebile inchiostro dell’ipocrisia, della maldicenza e dell’emarginazione i suoi rapporti con i compagni di scuola. Ma soprattutto con le loro bigotte famiglie. Gente da sempre imbalsamata nel miserabile involucro del perbenismo borghese, tutto apparenza e niente sostanza, meschino quanto stonato e paternalistico. Un tipo alquanto sfortunato, Armando. Appena conseguito il titolo di studio, il giovane si vede piombare tra capo e collo la bestia nera che ogni ragazzo all’epoca temeva (o anelava, a seconda dei punti di vista…) come il demonio: la famigerata cartolina-richiamo per il servizio militare. Una circostanza che in quei giorni assai tribolati per la nostra Patria significava una sola cosa: essere spediti dritti al fronte, con tutti i rischi e le incognite che questo comportava.
Detto fatto. Un rapido corso alla Scuola di Sanità Militare di Costa San Giorgio e via, Armando viene catapultato con tutta la sua divisione in Sardegna. E perché proprio là? Semplice. Dopo che le truppe dell’Asse hanno dovuto sloggiare dal Nordafrica, lo sbarco alleato sulle coste italiane è dato ormai per certo e la Sardegna pare essere il luogo più probabile dell’operazione. Errore clamoroso, purtroppo, come ci accorgeremo amaramente in seguito, perché il suddetto sbarco avverrà invece – come era più ragionevole aspettarselo – nell’assai meno remota Sicilia. Ma tant’è.
Siamo ormai al luglio del 1943. Sono trascorsi ben trenta mesi dall’entrata in guerra dell’Italia, e l’entusiasmante giornata del 10 giugno 1940, con l’oceanica folla accorsa a piazza Venezia per ascoltare dalla viva voce di Mussolini il fatidico annuncio è ormai solo uno sbiadito ricordo. Il perché di tutto questo è assai facile da intuire. Quella che all’inizio doveva essere poco più che una “passeggiata” trionfale verso l’immancabile vittoria su Albione e Marianna si è rivelata un’insidiosissima, micidiale trappola. Una palude nelle cui sabbie mobili stanno lentamente ma inesorabilmente affondando tutte le speranze e gli sperticati richiami all’arciabusato cliché del <popolo di eroi> ecc… ecc… Un refrain che tanto piace al regime e alla sua stucchevole retorica.
Una marcia trionfale miseramente affogata tra tessere annonarie, razionamenti, coprifuochi, sabotaggi, inverecondi tradimenti e sfacciate fellonie. Adesso ci si sono messi pure i bombardamenti indiscriminati che gli Alleati operano disinvoltamente sui principali porti e snodi ferroviari del nostro paese, del tutto incuranti delle conseguenze sulle inermi popolazioni.
Ed è proprio sotto una di queste feroci incursioni, quella su Cagliari, che Armando Fiorani entra in intimità con l’autentica protagonista dell’opera. Si tratta di una bella ragazza appena diciottenne, Rita Argiolas, “io narrante” della seconda parte del romanzo. Rita è una sarda tutto pepe nata in un paese della Sardegna profonda, Ghilarza, un borgo di un paio di migliaia di anime situato a un tiro di schioppo dal luogo dove si è accampata la Nembo. Orfana di madre e cresciuta sotto le amorevoli cure di “zia Gesuina”, una fantesca fedele fino alla devozione, Rita è l’amata figlia di Bacchisio Argiolas. Costui è il ricco proprietario della dimora ghilarzese dove Armando e un altro suo ufficiale hanno trovato una più che decorosa sistemazione. Rita si era recata nel capoluogo isolano per motivi di studio, e si è innamorata a prima vista del bel tenentino, tra le cui braccia ha trovato protezione e conforto durante l’imperversare del raid aereo. Scampata fortunosamente alle bombe, insieme ad Armando Rita se ne torna nella più sicura Ghilarza, dove neppure la guerra riesce a turbare gli atavici ritmi pastorali dei paesani.
Il fatto è che i sardi, sarà l’isolamento, sarà la loro lunghissima storia, assistono all’immane conflitto con la stessa freddezza dei maestosi nuraghi che da millenni dominano l’isola. Fatto sta che entro breve tempo Rita resta incinta di Armando. Facile immaginare cosa significhi questo nella tradizionale e sonnolenta Sardegna della prima metà del Ventesimo secolo, tutta vento, zanzare e pettegolezzi. Urge andarsene via da Ghilarza per nascondere la vergogna della gravidanza. Ed è ciò che entrambi fanno senza starci a pensare più di tanto. Celebrato un matrimonio “riparatore” per rispetto di papà Bacchisio, Armando e Rita, seguendo due diversi destini, si dirigeranno in continente con la promessa di ritrovarsi un giorno. Lui per seguire il suo battaglione dislocato nel Nord Italia, perché nel frattempo a Roma si è appena consumata la farsa del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 con l’arresto del duce. Lei per trovare un imbarazzantissimo alloggio di fortuna nella squallida casa di tolleranza gestita dalla detestata suocera. Un luogo dove tuttavia potrà partorire lontano da occhi indiscreti il figlio della colpa.
Ed è proprio a Firenze che Rita, ancora col pancione e priva di notizie dell’amato Armando, farà la conoscenza di un bel capitano (“Hauptsturmfuhrer”) austriaco, Karl Albert Grauner. Karl è un uomo vecchio stampo, un signore dai modi e dal portamento apollinei, un galantuomo elegante e raffinato, amante della musica classica, uso al baciamano e al corteggiamento cavalleresco. Rita si sentirà suo malgrado attratta dalla rara sensibilità dell’austriaco, pur seppellita com’è da montagne di dubbi, rimorsi e sensi di colpa. In tutto questo vertiginoso dipanarsi di eventi, la guerra procede fino alle sue ultime inevitabili conseguenze: l’8 settembre, la liberazione del duce dalla prigione del Gran Sasso, la formazione della Repubblica Sociale Italiana, la crudele lotta partigiana, l’episodio di Sant’Anna di Stazzema. Il tutto all’insegna del “leggere per apprendere” o dell’apprendere tramite il narrare. Ma che l’antefatto, pur se accattivante, non inganni il lettore.
La guerra è solo il corrusco contorno delle avventure occorse alla bella Rita, l’autentica protagonista delle molte vicende narrate. Si tratta infatti di un libro tutto sommato intimista e fondamentalmente antifascista, dove i protagonisti, tranne forse l’umano, troppo umano Armando, non aspettano altro che il conflitto finisca presto per condurre un’esistenza meno grama. La frase rivelativa, la più esaustiva di tutte, si ha a pagina 470 del libro. Essa è pronunciata da Livio, un vecchio commilitone di Armando. Parlando del suo ex compagno d’armi, Livio osserva sconsolato: <E pensare che se non avesse avuto l’urgenza di lasciare la Sardegna, se fosse rimasto con noi (vedi: imboscato…), ora sarebbe da questa parte della barricata (vale a dire quella “giusta”, quella alleata…) e potrebbe considerarsi salvo. Come me! Da quando il battaglione è stato sciolto io faccio una vita da nababbo: mi hanno mandato qui e per me la guerra è ormai soltanto un ricordo. Uno spiacevole ricordo>.
Insomma, il romanzo è gradevole, scritto bene e scorrevole. Inoltre fornisce molti rudimenti sugli usi e costumi della Sardegna e dell’Italia in tempo di guerra. Ma se è vero che la storia è maestra di vita, l’opera di Oppo insegna molto, certo. E tutte cose importanti, ci mancherebbe. Tranne alcune virtù, per nulla marginali: l’onore, la fedeltà a un’idea, il coraggio in battaglia, la fede, l’amore per la propria Patria portato alle estreme conseguenze. Tutte qualità che se uno non le possiede non se le può dare. E infatti il romanzo di Oppo non le dà, e si guarda bene dal farlo. Ma d’altronde si tratta di cose che non si possono neppure imparare a tavolino…