De Regimine Principum [27]: l’impero fu concesso da Dio ai Romani per il loro amor patrio
Poiché fra tutti i re e i prìncipi del mondo i romani furono i più solleciti verso le cose di cui abbiamo parlato, Dio li ispirò per governare bene, e perciò degnamente meritarono l’impero, come prova Sant’Agostino nel De civitate Dei, per diverse cause e ragioni che qui, riassumendo, possiamo ridurre a tre – lasciando da parte le altre per motivi di brevità -, in considerazione delle quali meritarono il dominio.
La prima ragione si trova nell’amor di patria; la seconda nello zelo per la giustizia; la terza nella cura per la concordia civile.
La prima di celeste virtù era già da sola degna dell’impero; perché per mezzo di essa partecipavano in qualche modo della natura divina, nella misura in cui indirizzavano il loro effetto alla collettività. Essa infatti è rivolta agli interessi universali del popolo, così come Dio è la causa universale del creato; cosicché Aristotele nel primo libro dell’Etica afferma che «il bene di un popolo è un bene divino»[1]. E poiché il governo regale, e qualsiasi altra forma di governo, implicano una comunità, colui che ama la comunità merita la comunità del dominio, ottenendo così un premio conforme alla qualità del merito. La natura infatti della giustizia divina esige che si dia a ciascuno un premio conforme all’opera di virtù che egli compie, affinchè si adempia la parola dell’Apocalisse: «Le loro opere li seguono». E ancora nel Vangelo di San Matteo sta scritto, che «il Signore diede a ciascuno secondo la propria virtù».
Secondo, l’amor di patria ha fondamento nella radice della carità che antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni, come dice Sant’Agostino quando spiega il passo di San Paolo sulla carità. Ora, la virtù della carità, nel merito viene prima di ogni altra virtù, perché il merito di qualunque virtù dipende dalla virtù della carità. Dunque l’amor di patria merita un grado d’onore superiore alle altre virtù; e questo è il potere.
Quindi è giusto che uno ottenga il principato a causa dell’amore. Di questo amore di patria Cicerone afferma nel De officiis, che «fra tutti i legami nessuno è più gradito, nessuno è più caro di quello che si ha con la propria patria. Infatti ad ognuno di noi sono cari i genitori, i figli, i parenti e i familiari, ma la patria col suo amore abbraccia le parentele di tutti; e per essa quale uomo giusto esiterà ad affrontare la morte, se potrà giovarle?»[2].
Quanto grande poi fosse l’amor di patria negli antichi romani, lo riferisce Sallustio nel Catilinario, con una sentenza di Catone, che elenca alcune loro virtù, fra le quali è compreso questo amore: «Non crediate – dice – che i nostri antenati abbiano fatto grande la repubblica (da piccola che era) con le armi, poiché noi abbiamo una maggiore quantità di armi rispetto a loro; ma la fecero grande perché erano operosi in patria, fuori comandavano con giustizia, nel deliberare avevano un animo libero e non soggetto alla colpa e alle passioni. Noi, invece, al posto di queste qualità abbiamo il lusso e l’avarizia, nella cosa pubblica la miseria, nelle cose private l’opulenza, elogiamo le ricchezze, siamo indolenti, non facciamo alcuna distinzione fra buoni e cattivi e l’ambizione occupa tutti i posti meritati dalla virtù»[3].
Terzo, l’amor di patria contiene in sé il primo e più grande comandamento, di cui parla il Vangelo di San Luca, perché colui che si occupa con zelo della cosa pubblica acquista una somiglianza con la natura divina poiché diligentemente prende cura del popolo, facendo le veci di Dio. Adempie inoltre il comandamento dell’amore del prossimo, dal momento che uno ha cura con amore paterno di tutto il popolo che gli è stato affidato, e così rispetta il predetto comandamento, che nel Deuteronomio (6, 5) è espresso in questi termini: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, e il prossimo tuo come te stesso».
E poiché da questo precetto divino nessuno è dispensato, ne deriva quello che dice Cicerone riguardo allo Stato, che nessun motivo può sopravvenire, in base al quale si possa rinnegare la propria patria.
Di questo amore della patria abbiamo un esempio – tramandato dalla storia e riferito anche da Sant’Agostino nel quinto libro del De Civitate Dei – nel nobile soldato Marco Curzio che, armato, si lanciò a cavallo in una voragine per allontanare la pestilenza da Roma. Così pure in Marco Attilio Regolo, il quale, avendo preferito la salvezza della Repubblica alla sua, quando fu interpellato dal popolo romano mentre fungeva da mediatore di pace fra il suo popolo ed i Cartaginesi, tornato in Africa, fu ucciso dai Cartaginesi. E fino a che punto i loro capi ebbero, per la salvezza della Repubblica, le mani monde da donativi, risulta chiaro dall’esempio di Manlio Curio, del quale Valerio Massimo nel quarto libro descrive come disprezzò le ricchezze dei Sanniti. Infatti, dopo aver riportato una vittoria su di loro, essendo stati i loro ambasciatori ammessi alla sua presenza, e avendolo trovato seduto su uno sgabello mentre cenava in una scodella di legno, gli offrirono una grande quantità di oro, invitandolo espressamente ad appropriarsene. Ed egli subito, ridendo, rispose: «È inutile: dite ai Sanniti che M. Curio preferisce comandare ai ricchi piuttosto che diventare ricco lui stesso. E ricordatevi che io non posso essere vinto in battaglia, né essere corrotto col denaro»[4]. Lo stesso autore racconta nello stesso libro[5] un episodio simile di Fabrizio il quale, pur essendo ai suoi tempi superiore a tutti in onore e autorità, quanto al censo era il più povero; avendo i Sanniti, che egli aveva come clienti, cercato di accattivarselo, disprezzò il denaro e gli schiavi che gli avevano mandato, e li rimandò indietro delusi.
«Per merito della sua parsimonia e per l’amor di patria fu ricchissimo senza denaro, e senza scorta di servitù fu abbondantemente accompagnato: poiché lo faceva ricco non già il possedere molto, ma il desiderare poco».
Riguardo a queste persone il Santo Dottore citato[6] conclude che a loro non fu dato il potere di dominare se non dalla provvidenza del sommo Dio, allorché giudica che le vicende umane sono degne di doni così grandi. E aggiunge molte considerazioni simili, per mezzo delle quali stabilisce che il loro dominio fu legittimo e fu dato loro da Dio.
Ma anche Matatia e i suoi figli, che pure appartenevano ad una famiglia sacerdotale, per l’amore verso la legge e verso la patria meritarono il comando nel popolo d’Israele, come risulta dal primo e dal secondo libro dei Maccabei. Essendo infatti vicino alla morte, egli così parlò ai suoi figliuoli; «Siate osservanti della Legge e date le vostre anime per la tradizione dei padri». E questo per Israele era l’equivalente dello Stato. Poi aggiunse: «E avrete una grande gloria e un nome eterno». Parole che possiamo riferire al principato dei figli dei quali l’uno successe all’altro, cioè Giuda, Gionata e Simone; e ognuno di essi, sacerdote e principe, fu potente in mezzo al popolo d’Israele.
[1] Aristotele, Etica Nicomachea, libro I, 2, 1094b, 10.
[2] Cicerone, De Officiis, libro I, 17, 57.
[3] Sallustio, De Coniuratione Catilinae, I, 52.
[4] Citato nel testo ma non indicato né reperito.
[5] Probabilmente San Tommaso qui cita il Factorum et dictorum memorabilium, libri IX
[6] Dovrebbe essere Sant’Agostino nel quinto libro del De civitate Dei.