Strade d’Europa – diario di viaggio

 

Strade d’Europa – diario di viaggio

«Strade d’Europa, stanchi, sporchi, ma felici, prendi dalla vita ciò che puoi» – recitava una vecchia e famosa canzone de La Compagnia dell’Anello, ed io, di ritorno da un viaggio incredibile per le strade di questa nostra Europa, quest’oggi svesto gli abiti dell’analista, del politico, e vesto quelli del cantastorie, forse rubando un po’ la scena (non me ne vogliate) al nostro Bastian Contrario, che certo capirà – e forse apprezzerà – questa mia voglia e necessità di trascrivere sul foglio, seppur elettronico, noterelle sparse di un viaggio alla ricerca della nostra identità.

Mattina del 7 agosto, ore 6; partiamo da Sesto San Giovanni, Milano, con l’amico e camerata Andrea e la moglie Olga, a bordo di una Fiat Punto a metano un po’ vissuta – non potendo sopportare l’anonimato degli aeroporti. Ci attendono migliaia di chilometri, 6712 per la precisione, decine e decine di strade, paesi, boschi, campi, facce e lingue diverse, sotto allo stesso grande cielo, quello d’Europa.

Dopo aver attraversato la Svizzera, il Liechtenstein e l’Austria, varchiamo gli ormai “ex-confini” tedeschi. Prima tappa Berlino, capitale della Germania, quella che una volta era la terra del popolo tedesco, e che oggi appare una grande locomotiva multietnica, una vecchia guerriera umiliata che ha timore del passato. La mia prima volta a Berlino, e sale la nostalgia… nostalgia di ieri, di quel sentire che mi lega a doppio filo alla tragedia che là si consumò, ma anche e soprattutto nostalgia del domani, così cupo all’orizzonte di questa Europa “occidentaleggiante”, conseguenza della terribile sconfitta e della triste occupazione americana.

La mattina seguente partiamo alla volta di Kaliningrad, Königsberg per gli amici, fermandoci però a Seelow, piccolo paese 60 Km ad est di Berlino, ex-DDR. Tappa doverosa, obbligata, al memoriale militare posto sulle alture del paese, là dove si combatté una delle più atroci e decisive battaglie della Seconda guerra mondiale. 1 milione di sovietici contro 100 mila tedeschi, il cimitero accoglie le tombe di molti di loro, poste a simil circonferenza attorno all’imponente statua del soldato sovietico. Il silenzio avvolge il ricordo del sangue versato, europei contro europei, sacrificio medesimo ma assai diversa la memoria storica. La Germania divisa in due, l’Europa divisa in due, da una parte l’onta e la vergogna impostaci dall’occupante americano, dall’altra la gloria immortale e la riconoscenza verso chi difese la patria armi in pugno.

Lasciamo la Germania ed entriamo in Polonia, finalmente Europa dell’Est, l’aria cambia e si nota subito; bandiere polacche a tutte le finestre, croci e luoghi di culto un po’ ovunque, ma soprattutto – perdonatemi – gente europea e soltanto europea. La Polonia che ho visto è bellissima, fatta di boschi e di campi coltivati, di cittadine straordinarie e di persone accoglienti, dove si avverte un sentimento di amor patrio e amore per la tradizione, che accomuna un po’ tutta l’Europa dell’Est, e che a noi sembra ormai “roba passata”, oppure “da medioevo” come dicono i radical chic.

Arriviamo al confine tra la Polonia e l’Oblast di Kaliningrad a sera, qua ci attende la frontiera, quella vera, fatta di filo spinato, soldati da una parte e agenti dell’FSB (ex-KGB) dall’altra. Non so descrivere la bellezza della frontiera, ma è semplicemente un qualcosa che ti fa capire dove stai entrando, ovvero a casa d’altri, dove altri si sono dati delle leggi che non sono le tue, parlano una lingua che non è la tua, difendono e proteggono una terra che non è la tua e dove sei ospite. La frontiera è la manifestazione più pura della sovranità di una nazione.

Eccoci dunque a Kaliningrad, ex città tedesca chiamata Königsberg, città di rara bellezza adagiata sul Baltico, dove l’architettura prussiana si sposa (e spesso si scontra) con quella sovietica. La tomba di Kant ci attende, posta sotto il loggiato della cattedrale in stile gotico-baltico, un breve giro in centro dopo la notte passata in ostello e via ancora sulla strada. Passiamo dalla penisola di Klaipèda, una suggestiva lingua di terra che si allunga tra la laguna e il Mar Baltico, e che collega Kaliningrad alla Lituania. La sabbia del Baltico è chiara, il vento è freddo e l’acqua pure, ma il rumore di quelle onde, per secoli percorse dalle genti del nord, ci scaldano il cuore e ci fanno capire che, forse, questo agosto alternativo, ci lascerà alcune delle più grandi emozioni mai vissute.

Proseguiamo il nostro folle viaggio verso la meta principale, attraversando le Repubbliche Baltiche, Lituania, Lettonia, Estonia, dove i pochi autoctoni che abbiamo incontrato si sono dimostrati disponibili e amichevoli, soprattutto l’agricoltore che ci ha soccorso in autostrada – se così la si può chiamare – portandoci una tanica di benzina. Là tutti hanno due cose in comune, nessuno parla inglese e tutti parlano russo nonostante i trascorsi, e questo la dice lunga su un determinato odio ideologico imposto e veicolato dalle élites nei confronti della Federazione Russa.

Eh già la Russia, arrivati in Estonia ci attende un’altra frontiera, superata la quale siamo finalmente in Russia. Qua ci attendono amici e parenti di Olga, che contribuiscono a farci vivere la Russia non da turisti, ma da viaggiatori; nel profondo, quindi dentro le case dei russi, fuori dalle vetrine del centro, nei palazzoni di 30 piani di San Pietroburgo e di Mosca, nelle periferie di Voronezh, nelle campagne così ricche di vita fuori dalle città. Visitiamo San Pietroburgo, dove ho l’occasione di partecipare al matrimonio di un’amica di Olga, e quindi come da stereotipo, di cantare Celentano a squarciagola.

Giunti a Mosca veniamo accolti dagli zii e dal cugino di Olga, che ci riempiono di cibo a qualsiasi ora. La città non mi è nuova, avendoci già trascorso 10 giorni nel 2017, riesco però a vederla in estate, con tutta la vitalità di cui dispone, fiori, fontane, parchi. Mosca è grandiosa, inutile dirlo, ti prende e ti culla, ti fa innamorare e ti fa riflettere. Mosca oggi è la capitale del regno del terrore e della dittatura di Putin, per pennivendoli nostrani, per noi è una sintesi storica fantastica, che ci parla certamente dell’Unione Sovietica, ma anche di Costantinopoli e di Roma, una città stupenda ed enorme che profuma d’Europa e di Asia insieme.

Dopo alcuni giorni passati nella capitale, dalla stazione Komcomolskaya prendiamo il treno notturno che ci porta a Voronezh, ultima tappa di questo viaggio. Il treno notturno in Russia non è un’opzione qualsiasi, è d’obbligo. Perché il treno notturno è l’espressione migliore della Russia e di tutti i suoi chilometri. Cuccette scomode e dure, odori nauseanti, rumori fastidiosi che ti impediscono di dormire. Nessun separé, nessuna cabina, un unico corridoio e tutti insieme per dieci ore di viaggio. Una pessima esperienza? Affatto. Qualcosa di meraviglioso, poiché vero, reale, senza censura.

Voronezh, ultima tappa. Città di provincia, con tutto quello che ne segue. Un enorme galeone si impone all’orizzonte di Piazza Admiralteyskaya, in ricordo della prima nave della flotta imperiale, varata nei cantieri di Voronezh il 19 novembre 1698. Nel centro della città una stupenda cattedrale, e la immancabile Piazza Lenin, immensa, grande, anzi grandiosa, con tanto di statua. Qua abbiamo la fortuna di visitare la campagna russa, e di assistere ad una ricostruzione storica-celebrativa della battaglia di Voronezh, tra le armate del Terzo Reich più un contingente italiano, e l’Armata Rossa. Esperienza significativa, soprattutto per l’accuratezza della ricostruzione, e per lo stupore degli uomini vestiti da alpini, nel vedere due italiani, “italiani veri”, come hanno commentato loro. Riflessione dovuta; ad assistere alla ricostruzione storica-celebrativa, vi erano famiglie intere, bambini soprattutto, a cui evidentemente viene spiegato che difendere la Patria è un sacro dovere, e che i loro nonni lo hanno fatto. Da noi invece la grande frattura tra chi la Patria la difese e chi la tradì, ancora mina le fondamenta di questa Repubblica nata da un tradimento, che ogni anno festeggia una sconfitta.

Lasciamo Voronezh con un altro treno notturno, ritorniamo a Mosca per riprendere la macchina, ed iniziare il lungo viaggio di ritorno, strada diversa, questa volta attraverso la Repubblica Ceca, dove al confine con la Germania file di auto tedesche fanno avanti e indietro, per acquistare a basso prezzo droga, alcol, benzina, sesso. Non c’è la frontiera in Repubblica Ceca, e si vede.

Il senso di questa cronaca di viaggio tuttavia, non è semplicemente quello di rendervi partecipi di una vacanza, ma in particolare fornire uno spunto di riflessione sul concetto di Europa. Che cos’è l’Europa oggi? Che cosa è in realtà? Domande non semplici ma necessarie per capire da che parte bisogna stare. Dalla parte dell’Europa, non certo dell’Unione europea ma della civiltà europea, cosa ben diversa. Dalla parte di quella grandiosa civiltà forgiata dai popoli europei, che da cinquemila anni abitano questa terra, e se oggi Europa è sinonimo di tecnocrazia, austerità, freddi banchieri senz’anima, allora volgiamo lo sguardo ad est. L’Europa è ancora ufficiosamente divisa in due; due mondi il cui sviluppo dialettico oggi inevitabilmente si scontra, e cozza con le contingenze storiche. Due mondi diversi, il primo, quello dove abitiamo; l’Europa Occidentale, l’Europa della libertà, del dirittoumanismo, del mondialismo, l’altra, quella dove abbiamo viaggiato; l’Europa Orientale, spesso dimenticata, lasciata indietro, considerata arretrata, ma ricca di quei sentimenti e quei valori che come mendicanti andiamo cercando ogni giorno, e che soltanto là, tra quei boschi e quei campanili abbiamo ritrovato.

Siamo andati ad est perché là ancora sopravvivono valori e tradizioni che nel “mondo libero” sono ormai stati distrutti. Siamo andati ad est perché per venti giorni abbiamo visto soltanto indoeuropei. Siamo andati ad est perché siamo convinti che la famiglia sia quel nucleo comunitario primigeno composto da padre, madre, e figli. Siamo andati ad est perché crediamo che il comunitarismo sia il paradigma fondamentale di un mondo nuovo.

In poche parole, siamo andati ad est perché amiamo l’Europa, quella che da noi non esiste più, l’Europa dell’identità, l’Europa del sangue, l’Europa della civiltà, e tra quei boschi, tra quei campanili, in tutti quei chilometri di strada, ci siamo sentiti di nuovo a casa.

«Strade d’Europa nello zaino libertà.
Forse un giorno l’ombra fuggirà
le sue mani sporche dal sole leverà
Un’aquila è nel cielo, un’aquila è nel cielo
Un’aquila è nel cielo sopra te.»

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