Venezia: tra convenzioni, ideologie e uno spiraglio alla poesia
Il festival di Venezia, appena conclusosi, ha messo inevitabilmente in mostra tutto il campionario della sfavillante macchina del cinema: le “utili” polemiche per risvegliare i distratti e gli assopiti, le consuetudini non meno velenose che inquinano il mondo della settima arte, le irrinunciabili ideologie più alla moda che hanno tenuto banco fin sul palco della premiazione: eppure, nel fondo di tutto questo agitarsi, uno sprazzo inaspettato di luce e poesia si è concesso un passaggio al lido, a ritardare lo spegnersi delle ultime speranze.
Il cinema è il più potente e sottile specchio della modernità, è lo strumento capace come nessun altro di parlare all’anima faccia a faccia, come – ahimè più sovente! – di impossessarsi della psiche fino a renderla una schiava gioiosa perché ignara. Esso non va sottovalutato, ma elevato al rango che gli spetta, per le sue imprese luminose, quanto per i suoi abissi.
Il presidente di giuria, la regista argentina Lucrecia Martel, infastidita dalla presenza in concorso di Roman Polanski per le note vicende di abusi sessuali che lo hanno coinvolto, ha dichiarato senza mezzi termini che non si può scindere l’uomo dall’opera. Al di là della replica prontamente pervenuta da parte del direttore della Mostra Alberto Barbera, questa affermazione dischiude le porte alla radice di tutte le domande: cos’è l’uomo? E, nello specifico, chi è un artista?
Vi fu un tempo in cui l’arte viveva nello splendore del sacro e creazione e ascesi si incontravano nel cammino dell’artista. Dal vertice di questa unione infatti possiamo ben affermare che solo l’occhio purificato può generare la più perfetta armonia. Nel luminoso Medioevo gli artisti creavano senza apporre la loro vile firma sui capolavori che ancora oggi contempliamo. E così avveniva anche in altre civiltà tradizionali. L’ego doveva sbiadire fino a farsi nulla per raggiungere quelle vette artistiche. Tutto questo era però possibile perché l’artista viveva inserito in una civiltà il cui sforzo era di ordinarsi alle leggi ontologiche e divine in una chiara e bilanciata gerarchia. Nel Medioevo cristiano, ad esempio, le corporazioni, di cui purtroppo nessuno fa più menzione, svolgevano un ruolo fondamentale per l’iniziazione di molti artisti. Quanto invece potremmo ancora mutuare da quell’ordinamento per la putrescente società moderna!
Dal Rinascimento questo ordine iniziò a deteriorarsi sempre più sino ai giorni nostri. Certo, qualche artista ancora dedito alla meditazione e all’ascesi, ancora lo si scorge nelle pieghe della modernità, ma le eccezioni, lo sappiamo bene, confermano la regola. L’ordinamento civile che contenga, favorisca e sostenga la vera arte si è via via sgretolato. L’artista perciò è solo e la sua anima deve a fatica trovare uno spazio in questa terra malandata. È la sua dimensione sottile che agisce per lui, a volte persino brutalmente, per venire alla luce in una realtà sempre più ostile. Questa lotta contro il caos che non le concede facile asilo la può far precipitare anche verso eccessi distruttivi. Il genio dell’arte può brillare al giorno d’oggi anche fra tempeste e omicidi. In fondo, il mistero di un’anima è proprio questo, che essa lotti per realizzare in pienezza il suo disegno, la sua immagine terrena. Non agiamo mai da noi stessi, ma sempre per mezzo di forze supere od infere. Questa è la profonda natura dell’uomo, il mistero che sempre dovremmo avere davanti agli occhi quando guardiamo una persona. L’artista, sia nei suoi abissi, che sulle dolci vette, ne è segno privilegiato. Per vedere, però, occorre liberare l’occhio interiore, che sorpassa le apparenze e contempla il mistero, trasfigurando la realtà con le segrete leggi della poesia.
Quest’anno a Venezia, nella sezione Classici, è stato presentato il documentario Andrey Tarkovsky. A Cinema Prayer, realizzato dal figlio del grande cineasta russo. Egli, più di ogni altro, ha seguito la strada del cinema come trasfigurazione del reale, come strumento poetico per catturare l’anima delle cose. Strada molto più proficua e profonda di quella a cui siamo abituati per convenzione. Ma questa strada domanda uno sforzo anche allo spettatore, di avere quella disposizione interiore affinché la bellezza e la verità colpiscano il suo cuore; di non accontentarsi della ragionevolezza, ma di piegarsi al mistero. Il cinema può essere allora visione dei mondi interiori e non semplice narrazione di storie.
L’anima cerca immagini di verità in cui specchiarsi, ma occorre avere fede, e abbandonarsi alla contemplazione. Non chiudersi, ma dal Tutto lasciarsi penetrare, perché «solo una cosa è certa: l’arte è una preghiera, con ciò abbiamo detto tutto».