Scuola di Pensiero Forte [66]: il libero arbitrio esiste e non lo si può ignorare
Per procedere con un ragionamento completo ed esaustivo, è necessario ora analizzare il problema della presunta non-esistenza del libero arbitrio.
A dire di Aristotele «è libero chi è causa di sé stesso»[1]. Ciò rappresenta una forte obiezione contro la presenza della libertà nell’essere umano. A quest’obiezione l’Aquinate risponde tanto chiaramente da rendere inutile se non dannosa qualsiasi parola aggiunta alle sue: «Il libero arbitrio è causa del suo operare; perché l’uomo muove sé stesso all’azione per mezzo del libero arbitrio. Tuttavia la libertà non esige necessariamente che l’essere libero sia la prima causa di sé stesso; come per ammettere che uno è causa di un altro, non si richiede che ne sia la causa prima. Dio pertanto è la causa prima, che muove le cause naturali e quelle volontarie. E come col muovere le cause naturali non toglie che i loro atti siano naturali, così movendo le cause volontarie non toglie alle loro azioni di essere volontarie, che anzi è proprio lui che le fa esser tali: infatti egli opera in tutte le cose conforme alle proprietà di ciascuna»[2].
Ma se a questo punto fosse anche accettato che l’uomo muova sé stesso all’azione per mezzo del libero arbitrio, sembrerebbe però che non sia libero di scegliere la direzione di tale movimento. Come approfondiremo nel secondo capitolo infatti, è possibile all’uomo scegliere i mezzi, ovvero eleggerne uno nella moltitudine di quelli che gli si presentano, ma non gli è possibile scegliere il fine ultimo verso cui tendere, che è invece comune ed è la beatitudine.[3]
Ciò è sostenuto anche dal Filosofo, quando afferma che «quale ciascuno è, tale è il fine che a lui apparisce»[4]. Sembrerebbe dunque, da ciò, che l’uomo cessi della facoltà del libero arbitrio in quanto non può scegliere il fine a cui tendere. Ma anche in questo caso l’equivoco viene facilmente risolto dall’Aquinate con una chiara precisazione: è vero che l’uomo per natura tende al bene, ma è anche vero che «queste inclinazioni sottostanno al giudizio della ragione»[5]. Se dunque l’uomo si trova impossibilitato a scegliere quale sia la propria inclinazione naturale, ovvero quella tendenza che gli proviene dal corpo verso il bene, ciò non si può dire anche dell’intelletto, che sottomette tali tendenze e da esse può scegliere di deviare.
Molte volte è però proprio attraverso delle scelte che una tendenza entra a “far parte” della natura umana: è il caso degli habitus[6]. Quando infatti un’azione è ripetuta più volte, prende il nome di abitudine, abito. Come considerare allora queste tendenze? Tali «maniere di essere che sono acquisite, si presentano come abiti e passioni, in forza dei quali uno è più portato a una cosa che a un’altra. Tuttavia anche queste inclinazioni sottostanno al giudizio della ragione»[7]. Questa è dunque la sentenza finale di san Tommaso riguardo la presunta impossibilità d’essere del libero arbitrio umano: «in tal senso non vi è niente, che si opponga alla libertà di arbitrio»[8].
[1] San Tommaso, Summa Theologiae, I, q.83, a.1, Arg.3
[2] San Tommaso, Summa Theologiae, I, q.83, a.1, Ad.3
[3] Cfr. San Tommaso, Summa Theologiae, II-I, q.5, a.8
[4] San Tommaso, Summa Theologiae, I, q.83, a.1, Arg.5
[5] Ibid.
[6] In Etica, per habitus (trad. “abito”) si intende una azione ripetuta più volte. Un abito buono, ovvero fatto di azioni buone, è chiamato virtù; un abito cattivo è definito, invece, vizio.
[7] Ibid.
[8] Ibid.