Un solitario soldato tra l’essere e il nulla

 

Un solitario soldato tra l’essere e il nulla

In piazza, nei pressi ove sorgeva la statua di Giulio Cesare – finita nel fiume poi nella caserma d’artiglieria e solo di recente, una riproduzione in verità, ricollocata al suo posto – un solo soldato tedesco a indirizzare i mezzi della Wehrmacht che discende – vano verso Sud dopo l’8 di settembre del ’43. Solitario e tenace sentinella di quella guerra che, oramai, andava delineandosi tragica sconfitta. Prima che Rimini si riducesse in cumuli di macerie, la città più bombardata d’Italia. Snodo strategico. Forse. Sta di fatto che dal 1° novembre, ore undici e tre quarti, quando la sirena annunciò il primo bombardamento (le bombe caddero in mare, alcune a caso tra le ville lungo il litorale o direttamente in città), se ne contarono secondo una stima di comodo oltre 140. Più gli edifici distrutti che quelli preservatisi. Fra questi ultimi, ironia della sorte, la stazione ferroviaria che era stato l’oggetto principe delle incursioni alleate.               

Di questo unico soldato a dirimere i convogli carichi di truppe e materiale bellico in uno spazio ove erano soliti passeggiare i riminesi, che ora, ai bordi della piazza sotto i portici s’incuriosivano quasi attendendo un esito nuovo e immediato – illusi felici e festosi l’8 settembre, convinti che il conflitto s’era concluso – mi parlò uno di quegli artisti di provincia, costruttori di storia locale ricca di aneddoti particolari e bozzetti tra buon italiano e gustose espressioni dialettali che rendono le vicende umane vive. Capace, pur nel suo aspro dissenso verso la guerra i lutti e Mussolini ed il Fascismo, di libere riflessioni e di una insita equità di giudizio. E volle, io sedicenne già curioso e già intimamente schierato, regalarmi un suo libro – tra memoria e finzione – della stagione in cui, appunto, Rimini e l’entroterra furono a ridosso della Linea Gotica. E mi duole, scrivendo queste note, ammettere come il libro sia andato perduto non so in quale circostanza e quando.                                                                                                         

M’è tornata a mente – chissà come e perché – una conversazione proprio in un caffè della medesima piazza (intitolata oggi a tre partigiani appesi a monito, da sussurri e riferimenti più sciacalli fra le rovine che combattenti) dove anch’egli, appoggiato alla bicicletta era rimasto ad osservare quell’unico soldato ligio al dovere, incurante degli sguardi della popolazione. E aveva aggiunto che fin da Varsavia nel ‘39 e la Norvegia, i Paesi Bassi e attraverso il Belgio all’ombra della torre Eiffel, lungo le strade aride e fangose e rese gelide dall’inverno della Russia quel soldato aveva visto transitare e s’era adoperato per rendere in marcia i suoi camerati. Mi disse qualcosa di simile su quell’ordine, ferrigno e feroce e pur impassibile negli anni delle vittorie e in quelli ultimi ove oramai la sconfitta si stava palesando. L’ordine – e l’aggiungo io, ora – a difesa di un’Europa che, forse inconsapevole, egli percepiva quale unico baluardo contro l’invadere della barbarie d’Oriente e il predominio dell’oro da Occidente. Di più – e sono sempre io a rifletterci sopra – l’annichilimento della civiltà in nome della “nientità”. Del resto il mio “amico” Max Stirner, anticipando il padre di Zarathustra, aveva concluso “Io ho riposto la mia Causa sul Nulla…” ed io con lui.

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