L’Eterna Bellezza

 

L’Eterna Bellezza

[In foto: Antonio Canova, La danzatrice con le mani sui fianchi, 1811-12]

Roma, Palazzo Braschi ospita la mostra Canova. Eterna bellezza, dal 9 ottobre al 15 marzo 2020, 170 opere distribuite in 13 sale, per celebrare il “Fidia italiano”, figlio adottivo dell’Urbe. Due soggetti fuori dalla clessidra, incuranti della sabbia gravitazionale a ragion della pulcritùdine creata, accolta, custodita contro l’impermanenza dell’umano destino. Sulla bellezza ci si interroga sbirciando nell’Estetica, bruma di tesi controverse o banalizzando il lemma nel linguaggio volatile sbriciolato dal relativismo ch’ è legge di pensiero. “Quando una società si allontana dalla bellezza, che dell’arte è una delle facce, inizia la decadenza. Quando un individuo pensa di poter far a meno dell’etica e della bellezza che ne è inseparabile compagna inizia la morte vera, quella spirituale” punge Franco Battiato in un’intervista, monito? constatazione.

Fuori Porta Salaria, nell’alloggio assegnatogli in Cancelleria, Johann Joachim Winckelmann, teutonico bibliotecario del dotto Cardinal Albani, nel 1764 redigeva, Storia dell’arte nell’antichità, pietra miliare della materia, sulla beltà ideale così argomentava: “Questa sublime bellezza è in Dio e il concetto dell’umana bellezza diventa perfetto quanto più esso può essere pensato in modo conforme e armonico con l’essere supremo che noi distinguiamo dalla materia grazie al concetto della unità e della indivisibilità che gli è proprio”.  L’indivisibilità dell’uno è la kalokaghatia dei sofisti greci, la bellezza fisica omozigote della virtù morale, una specchio dell’altra senza possibilità di separarle chirurgicamente. La perfezione non più perfettibile è nelle corde umane come slancio dell’artista, del poeta, dell’uomo di scienze, del santo fin sulla soglia dell’ineffabile tenendo per mano chi accoglie l’offerta del volo, giunti assieme al limitar dell’oltre, percepiranno il traguardo del cammino reale, porta socchiusa d’ ogni fine e nuovo principio.

Il corpus del Neoclassicismo dunque fu teorizzato a Roma trovando in Antonio Canova il massimo esponente europeo di quel movimento diffusosi dalla Francia giacobina fino alla S. Pietroburgo di Caterina II. Ma il gene dell’antico era digià nel DNA veneto se pensiamo a un illustre del Cinquecento, Andrea Palladio, scalpellino, muratore infine celebrato architetto della Serenissima, anche Antonio l’era veneto, nato nella pìcola Possagno, trevigiano, il giorno d’Ognissanti del 1757, si spense a Venezia il 13 ottobre 1822 nel viaggio di ritorno al paesello natio.

Orfano a 4 anni fu parcheggiato dalla mamma, convolata a nuovo letto, presso i nonni paterni, messo a bottega di nonno Pasino gran tagliapietre, mamma non la vide più per trent’anni, fu certo un artiglio nel cuore. Dopo l’apprendistato veneziano, coronato dai primi allori, Tonin se ne scese a Roma nell’autunno del 1779 (partì dalla laguna il 9 ottobre), aveva 22 anni, un bel bagaglio di mestiere nelle mani sospinto da un venticello fresco che diceva quanto fosse mago a far del marmo cosa viva.

La ricerca della bellezza ideale era la lepre che inseguiva, Roma gli offrì l’eternità delle sue vestigia, fu matrimonio fedele nonostante viaggi e commesse a iosa dategli in grazia d’ una fama, in vita, non inferiore a quella di Leonardo. Al fine ritornava sempre nel letto coniugale a Campo Marzio (via delle Colonnette) resistendo al pressing asfissiante di potenti ché si trasferisse alle loro corti. Lui schivo, riservato per natura, iellato in amore ma col fuoco nelle mani, giocò sé stesso nel suo studio romano provando l’impossibile, fermare quell’istante in cui la bellezza immortale si manifesta per forma e spirito facendosi epifania d’un mito arcaico. Non clonò la “bella natura”, pur ammirando l’opera di Fidia traslata da lord Elgin al British Museum di Londra, “ha avuto il coraggio di non copiare i Greci e di inventare una bellezza” come osservò Stendhal, essa è anche amore, tenerezza, velata mestizia colte nell’attimo che poi scappa. Disse un Ugo Foscolo estasiato dinanzi alla Venere italica del 1812 che lo scultore aveva riposto in essa “tutte quelle grazie che ispirano un non so che di tenero ma che muovono più facilmente il cuore”, unità di corpo e anima, l’inscindibile t’ avvolge guidandoti sul ponte, è il Dedalo che lega le ali a Icaro per tentare l’impresa.

Canova fu spesso, non sempre, l’artista dell’equilibrio sottile ragione-sentimento, tra il secolo dei lumi e i sintomi del romanticismo tant’è che la bellezza eterna di alcune sue opere sta nel virtuosismo di fare pelle del marmo soffiandoci però la ruah (lo spirito) per sollevarle in volo contro le forze gravitazionali. Sottraendo ogni orpello superfluo ha disvelato la kalokaghatia reale, indissolubilità corpo-psiche umana, emozionata, c’è l’Aristotele non il Platone, via la dicotomia tra spirito e fardello della carne, il bello col buono si manifestano abbracciati come nel gruppo famosissimo di Amore e Psiche, in copia robot nel cortile di Palazzo Braschi.

Ci ha stupito la sensualità elegante della danzatrice con le mani sui fianchi, la trasparenza della veste (ricorda il virtuosismo della Pudicizia di Antonio Corradini nella Cappella Sansevero a Napoli) è l’offerta aristocratica d’una muliebre bellezza vivificata dall’accenno d’ un passo di danza, mentre lei ruota sul piedistallo t’immerge nel mito di Pigmalione e Galatea.

Il sentire dell’anima non è solo battito gioioso di farfalla, è anche discesa nel pozzo d’ un’anima violata dall’unghia del peccato, il corpo in ginocchio della Maddalena penitente ci lascia sbirciare la carne del piacere ma lacrime le solcano le gote, il tempo fluido s’arresta nelle orbite d’ un teschio, perdono e rinascita passano dalla croce bronzea adagiata sui palmi delle mani.

Mancano alla mostra capolavori celebrati da politici, critici e poeti, Le Tre Grazie. Venere vincitrice (Paolina Borghese), Teseo sul Minotauro, la Venere italica, l’originale di Amore e Psiche e logicamente i monumenti funebri a Maria Cristina d’Austria, papa Clemente XIII e papa Clemente XIV, Vittorio Alfieri, suppliti da disegni e bozzetti progettuali. Opere di bellezza rasserenante dove un filo comune cuce i miti pagani alla fides cristiana dotandoli d’ un velo di melanconia per la Natura arcigna che impone sì il suo corso ma il riscatto è nella fede della bellezza eterna imperitura.

In vita, come già detto, il nostro ebbe fama mondiale ineguagliabile, firmò persino un ritratto di G. Washington,  Napoleone lo voleva a tutti i costi artista dell’Impero coprendolo di onori, ma il Tonin mollò tutto tornando a via delle Colonnette, al corso generale, piccolo, paffuto, bruttarello, lasciò la statua gigante del Bonaparte in veste di Marte pacificatore ma l’era tutto ignudo, palestrato, troppo sconveniente, l’ opera fu messa in magazzino, coperta come una poltrona, finirà, pensate un po’, nella residenza londinese del Duca di Wellington, scherzo della storia, il vinto ostaggio del vincitore.

Dopo la caduta del Bonaparte, papa Pio VII ritornato a Roma dopo la prigionia a Fontainebleau incaricò proprio Canova di recuperare quanto più possibile il patrimonio artistico depredato dai galletti e lui riuscì nell’impresa usando la sua fama, di qua dalle Alpi tornarono 249 capolavori sui 506 oggetto della spoliazione transalpina.

Al detto papa, per festeggiare il suo ritorno trionfale, lo scultore volle dedicare un colosso alto oltre 8 metri L’Allegoria della Religione (la mostra ne ricostruisce il progetto), da piazzare nella Basilica di S. Pietro, ma i chierici s’ opposero per paura del soverchio peso, non se ne fe’ più nulla con grande scorno dell’artista che volse al progetto di un nuovo tempio nel paese natio sul sito di una vecchia chiesa parrocchiale in brutte acque. Trasferì così un piccolo Pantheon a dominare la Val Cavasia, chissà cosa ne direbbero gli odierni architetti paesaggisti; fatto sta il suo corpo è là compresa la man destra, mentre il cuore è sepolto ai Frari di Venezia, riuscendo a separare corpo e anima.

A chi ha avuto la pazienza di leggere queste righe suggerisco, allo stato delle cose in Italia, di prendere spunto dal gruppo Ercole e Lica, i francesi l’interpretarono politicamente come la Rivoluzione che abbatté la monarchia, non era nelle corde di Canova fare ideologia, però per noi può essere un invito.

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