APPROFONDIMENTI: che cos’è la decisione

 

APPROFONDIMENTI: che cos’è la decisione

In termini massimamente generali, all’origine di ogni legge, decreto, sentenza, atto pubblico e non, esiste un qualcosa che sfugge a qualunque dispositivo di razionalizzazione, formalizzazione o codificazione. Questo qualcosa è la volontà del soggetto politico: l’uomo.

Ogni scelta, che per natura si qualifica inevitabilmente come politica, scaturisce da una volontà che prima di tramutarsi in un atto codificato, con tutti i crismi formali che conferiscono a suddetto oggetto la conformità legale, abita una realtà labile ed evanescente. E questa realtà è stata chiamata, e la si chiama, decisione.

Essa è un tutt’uno con l’intero processo decisionale, dove ad essere coinvolto è il cuore primordiale della politica, che è la volontà umana di esercitare il dominio. Questa dimensione «grezza» può certo conoscere i propri limiti storici nella forma di governo, nei contrappesi istituzionali, nelle procedure formali e nella razionalizzazione operata dalla statualità moderna, ma non può essere raffinata nella sua essenza, che rimane inalterata all’interno di ogni ordinamento che i popoli si sono dati nei millenni.

Vincolata alla realtà del potere visibile, che esibisce e codifica la propria forza secondo forme fisse, ufficiali e conoscibili (la legge), rimane quella del potere invisibile, che non si può codificare e che resta imperscrutabile nel groviglio di volontà asserragliate nell’antro inespugnabile delle loro coscienze (la decisione).

La decisione è il soggetto scabroso, perché infrange l’incanto e la narrazione propriamente mitica della «Legge» quale egida con cui difendersi dall’arbitrio; legge che qui va intesa come lo strato razionale di normazione e regolamentazione che si posa sul tessuto striato della società, intesa a sua volta come luogo dove si esercitano i rapporti di forza (ossia politici) fra le volontà individuali.

Ci si deve domandare: che cos’è una legge prima di essere tale? Che cos’è una sentenza prima di essere tale? Che cos’è un qualunque atto prescrittivo o interpretativo dal contenuto conforme, prima di essere tale? La risposta è: un atto di volontà, una decisione, la cui natura è extra-giuridica, ed anzi pre-giuridica. A dispetto delle obiezioni che si possono sviluppare rispetto a questo problema, bisogna focalizzare come il contenuto prescrittivo proprio dell’ordinamento politico, leggi fondamentali, costituzioni, codici e procedure, parlino soltanto della possibilità del potere di agire tramite certi atti, e non del potere stesso. L’anima di ogni istituzione risiede nella volontà degli individui che la rappresentano, la vivificano.

Il Diritto ordina tutto ciò che si esterna dalla coscienza, e non ciò che essa interiorizza. Sovvengono le parole di Deleuze, forse richiamate incautamente ma non senza motivo: «la sovranità non regna su ciò che è capace di interiorizzare». (Per ora).

Il funzionamento dell’istituzione parlamentare, a cui spetta in ogni ordinamento democratico la potestà legislativa, è un esempio che facilmente sovviene alla mente dei più. Come si potrebbe dire che una maggioranza parlamentare «decide» al riparo da ogni procedura o atto codificato, se persino una semplice proposta di legge lo è? Qui si presenta la preziosa opportunità di specificare come ogni atto codificato sia preceduto inevitabilmente da una decisione, e di come questa dualità si ripeta in qualunque numero di volte secondo la procedura, anche la più astrusa e complessa, che la ratio umana abbia posto in essere per arginare l’incertezza dell’arbitrio.

Pertanto, nel caso di un’iter legislativo in seno ad un qualunque parlamento, ci sarà la «decisione» di proporre una legge, secondo un determinato fine, che quindi si tramuterà in atto scritto e ufficiale di proposta di legge. Dopodiché potrebbe seguire un discorso, una dichiarazione di voto, e il voto stesso, ed ogni volta tutti questi atti ufficiali sarebbero preceduti dal calcolo discrezionale della decisione.

Vale la pena mettere in luce da subito come qui non si stia inseguendo il fantasma del discrimine epocale esistente fra dimensione orale e scritta della legge, per cui verba volant, scripta manent. La dimensione scritta è parte della decisione tanto quanto quella orale, poiché la vera differenza sta non nella fissità della parola ma nella sua conformità a principi quali l’autenticità, la legittimità, e quindi la legalità formale tout court. Uno scambio epistolare può essere parte di un processo decisionale tanto quanto un colloquio nelle segrete stanze: ad essere rilevante è la sottrazione della parola, sia essa detta o scritta, dall’ambito della forma, dell’ufficialità. Anzi, proprio per questa ragione, il noto proverbio innanzi citato di Caio Tito, andrebbe inteso nell’accezione di un monito machiavellico al potere: si faccia attenzione a cosa si mette per iscritto, a cosa si dà il crisma della legalità, poiché in seguito se ne dovrà rispondere.

Un’altra obiezione potrebbe consistere nell’ostacolo fornito da vincoli dottrinali, magari in ambito giuridico. Se la decisione precede l’atto codificato, cosa accade se lo stesso processo decisionale è costretto entro dei limiti precisi? Per quanto lo si voglia contenere, il momento della decisione semplicemente arretrerà davanti i criteri ermeneutici posti dalla dottrina, e alla volontà del giudice spetterà allora decidere anzitutto di quali criteri servirsi e quali no. E dopo, in conseguenza di quanto optato, formulare la sentenza.

Se la decisione rappresenta qualcosa di scabroso, non è certo per il desiderio di negare l’oggettiva necessità della volontà umana dietro ogni scelta. Tutto il prodotto della vita sociale umana si regge sul presupposto che l’uomo decide, cioè che è dotato di ragione. Ma se il tutto si arrestasse all’affermazione di questa evidente realtà, l’indagine, qui, non avrebbe obiettivi di critica politica, semmai avrebbe l’obiettivo descrittivo, di natura filosofica e anatomica, di spiegare scientificamente cos’è la volontà umana.

Ciò che rende invece la decisione scabrosa è che essa reca con sé un’intenzione, un fine parziale e ideologicamente orientato, che si fa atto codificato solo per un bisogno strumentale, poiché ha come vero fine piegare la realtà al proprio volere. È in ragione di questo che la decisione infrange l’incanto, come si è detto, della narrazione della società normata secono principi generali, astratti, inadatti a qualunque uso arbitrario da parte del singolo governante o ufficiale pubblico.

Poco importa che si imponga per legge la motivazione di un certo atto. La motivazione non può che essere data sulla base di elementi razionali che ineriscono sia alla sfera del diritto, sia a quella dell’utile politico, e che quindi sono già codificati da un linguaggio formalizzato. L’obbligo della motivazione, o la possibilità di inquisire l’opportunità di un provvedimento, continuano, nonostante ogni sforzo, a sottrarre la decisione dalla sua scandalosa nudità: ossia la parzialità del soggetto. Perché la risposta autentica, onesta, consisterebbe nell’ammissione: «ho deciso così perché mi pareva giusto, e mi pareva giusto secondo la mia idea di giusto, che inerisce perciò a quella che è la mia concezione di mondo».

La procedura parlamentare per il legislatore, i limiti della dottrina per il giudice, come si è esemplificato, non possono intaccare la discrezionalità della decisione neppure volendolo. In entrambi i casi le indicazioni e le restrizioni hanno come oggetto i possibili contenuti dell’atto codificato, e non certo i contenuti della coscienza. E poiché la «volontà decidente» ne è consapevole, essa può continuare a compiere la propria valutazione secondo una ragione strumentale.

Ma più importante ancora, l’obbligo di motivazione o la responsabilità politico-penale (gli anglosassoni direbbero accountability), non ottengono neppure l’effetto di produrre una verità, cioè di svelare il fine autentico della decisione, ormai filtrato secondo i criteri della codificazione legale. Anzi garantisce ancor di più la possibilità di utilizzare in modo strumentale le realtà procedurali, o le esigenze formali del diritto, per giustificare un effetto il cui fine reale è destinato a rimanere absconditus.

Lo capiamo bene riccorrendo ad un episodio che descrive un uso strumentale della legge ante-litteram, soprattutto secondo il criterio della «generalità». Nel Vangelo di Matteo (2,1-16) si narra  l’episodio della strage degli innocenti. Re Erode, udito della nascita del Messia dai Magi, e temendo per la sua autorità, ordinò che tutti gli infanti maschi dai due anni in giù venissero uccisi nella città di Betlemme e contado. Tale generalità del suo ordine era naturalmente dettata dalla circostanza di non conoscere l’identità del piccolo Gesù, ma nei fatti l’ordine di Erode era di uccidere una serie imprecisata di individui che rispondevano ad un criterio anagrafico.

Se si vuol provare ad immaginare lo svolgimento concreto di questo episodio storicamente molto dubbio, si dovrà quantomeno credere che nelle tasche dei capitani di Erode ci fosse un ordine scritto dal suddetto contenuto, e che semmai venne letto in una pubblica piazza come proclama, nessuno avrebbe potuto capire altro da quanto avrebbe udito: il re desidera la morte di tutti gli infanti maschi dell’età di due anni o inferiore. Ma il vero obiettivo di Erode era solo la morte del Messia, cosa che poteva sapere solo chi, con Erode, aveva contribuito alla «decisione».

Procedendo oltre, gli effetti di un atto codificato possono anche rendere evidente, sul lungo periodo, i veri fini retrostanti, cioè la decisione, ma questa evidenza non può andare oltre il senso comune.  Non esiste ratio che possa tradurla in un atto di contestazione ufficiale.

Ne sono la prova due tipici scenari: quando una corte di legittimità invalida una sentenza o una legge, non ne censura certo la volontà, l’intenzione che l’ha posta in essere, perché è al di là di qualunque censura, ma si ferma a correggere soltanto il contenuto non conforme dell’atto. In modo ben meno procedurale, quando una norma suscita tale malcontento e disordine da indurre i suoi autori all’abrogazione o all’emendamento della norma stessa, tale volontà rimane impregiudicata. Che sia una manifestazione pacifica od una vera e propria insurrezione, questa continua a non costituire un atto che formuli un obbligo per il potere vigente di ritirare o modificare una norma. Lo scontro è fra due tacite verità di volontà, due intenzioni, due decisioni, le quali hanno come precipitato concreto un atto razionale, codificato, legale. E questo è l’ultimo tassello, quello visibile, di un contezioso politico fra forze che si oppongono a monte partendo da volontà dissonanti.

Non si può censurare la decisione di un giudice, ma solo la sua sentenza; non si può censurare la decisione di un politico, ma solo la sua legge, il decreto o il regolamento. Non perché sia sbagliato, bensì perché è impossibile.

Si noti bene, è controintuitivo pensare che tutto ciò sia una conseguenza del cosiddetto «governo della legge» (rule of law), fra i cui capisaldi è previsto che tutti coloro che esercitano funzioni pubbliche debbano rispondere del loro operato alla legge e a nessun altro. Ossia, concretamente, che questi debbano essere contestati secondo procedure prestabilite e da istituzioni preposte, sugli atti da loro prodotti nell’esercizio delle funzioni, e non secondo la discrezione di un potere supremo, capace liberamente di giudicare e sulla qualità della persona e sulla qualità del suo operato secondo un’esigenza politica contingente.

Il governo della legge è semmai la piena presa di coscienza di quanto si è detto, e quindi la volontà di occultarlo il più possibile secondo principi razionali, miranti in primo luogo ad un contenimento del potere sovrano entro un alveo ben preciso, ed in secondo luogo ad un processo di normalizzazione e standardizzazione dell’amministrazione pubblica.

L’essenza del problema rimane, prima e dopo il governo della legge: si sarà sconfitto il tiranno se egli non potrà più essere legislatore, giudice e carnefice, ma non si fugherà mai del tutto il pericolo che o il legislatore, o il giudice o il carnefice, saranno tirannici singolarmente. Porre dei limiti ai poteri, cioè alla tipologia di atti che le istituzioni possono emanare, non dissipa affatto la nebbia che aleggia fra la decisione, come l’abbiamo chiamata, e l’atto codificato. Ma la dialettica fra queste due realtà non è esaustiva. Poiché se quanto si è detto finora vuol confermarsi coerente, si dovrà dire che l’atto codificato è il frutto di un ordinamento a sua volta instaurato da una decisione.

Ecco dunque che la «decisione» nella sua accezione schmittiana corona un percorso che qui si è provato a far partire dal basso, già nella logica dell’ordinamento (Ordnung) istituito. Ascendendo, arriviamo al momento paradossale della «decisione sovrana», nel quale il sovrano «dimostra di non aver bisogno del diritto per creare diritto», in cui dichiara la scandalosa verità per cui egli «è, nello stesso tempo, fuori e dentro l’ordinamento giuridico».

Lo Stato e le sue leggi scaturiscono da una volontà di dominio, che all’inizio si è detta non casualmente «grezza», proprio perché mancante di quella raffinazione razionalistica operata dal Diritto, dalla forma, dalla procedura. Si deve fronteggiare la realtà per cui l’ordinamento, e tutte le istituzioni che lo compongono, non possono che portare il marchio di quella volontà politica, per questo assolutamente parziale, che ha informato tutto secondo il suo desiderio. È proprio in nome di questa verità, ossia dell’impossibilità di rinvenire un nucleo fondante scevro da impronte ideologiche, che il problema della decisione non si pone solo nei confronti di quelle istituzioni «politiche», ma delle istituzioni tout court, poiché tutte, dalle corti di legittimità alle autorità indipendenti, si reggono e agiscono grazie ad una forza intrinsecamente politica.

Esattamente le istituzioni, più delle norme che abbiamo chiamato atti codificati, diventano centrali per trarre una conclusione soddisfacente sul «decisionismo» schmittiano. Allievo, il professor Carl Schmitt, di Maurice Hauriou e quindi della teoria del diritto nota come «istituzionalismo», egli ha integrato nelle sue opere l’idea della produzione normativa come diretta necessità delle singole istituzioni, preesistenti alla ragione monolitica emanante da un solo ente: lo Stato. Pensiero, questo, che getta una luce sinistra e nel contempo liberatoria sulla comune idea che si ha della Legge.

Questa, infatti, oggi come mai ci appare sospesa tra la decisione del legislatore, che la codifica in modo sempre più spregiudicatamente strumentale, e la decisione del giudice, che la interpreta nel modo sempre più ideologico. In un quadro in cui l’ordinamento, di cui vuotamente si esaspera la vincolatività, sta perdendo la sua capacità di «ordinare». La Legge dunque ci appare nelle sue vesti più dismesse, di lettera morta vivificata solo dal più fondativo degli arcana imperii: l’imperscrutabile e misteriosa volontà umana.

Il mito narra che Atena donò a Perseo uno scudo affinché potesse uccidere la gorgone Medusa senza essere pietrificato dalla malìa del suo sguardo; a noi oggi Atena rifiuta uno scudo e per non guardare la gorgone negli occhi, chiudiamo i nostri.

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