De Regimine Principum [39]: Gesù Re assunse una condizione di vita umile e nascosta
C’è anche un altro motivo per cui nostro Signore assunse una condizione umile, nonostante fosse il Signore del mondo: per far capire la differenza fra il suo dominio e quello degli altri prìncipi. Infatti, quantunque fosse anche temporalmente Signore del mondo, tuttavia ordinò direttamente il suo principato alla vita spirituale, secondo le parole del Vangelo di San Giovanni (10, 10): «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
Da qui trovano conferma anche le sue parole prima ricordate: «Il mio regno non è di questo mondo». Per tale motivo egli visse umilmente, per trarre col suo esempio i discepoli ad agire secondo virtù, nel quale compito la via più adatta è l’umiltà e il disprezzo del mondo, come già avevano dimostrato gli Stoici ed i Cinici, secondo la testimonianza di Sant’Agostino e di Valerio Massimo.
Lo stesso Seneca, che fu un perfetto stoico, lo dichiara nelle opere De Dei providentia e nel De brevitate vitae a Paolino. Per mezzo dell’umiltà, inoltre, ci si rende degni del regno eterno, il cui conseguimento fu lo scopo principale del dominio di Cristo. Perciò egli stesso, nel Vangelo di San Luca, disse ai suoi discepoli e seguaci: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io vi preparo un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, affinché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno» (Luca, 22, 28-30).
Dunque il Signore volle che i suoi seguaci vivessero umilmente, sulla scorta del suo esempio, per il motivo già detto, secondo le parole evangeliche; «Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore» (Matteo, 11, 29), ed a questo volle ordinare il suo dominio temporale. Ecco perché la vita spirituale dei fedeli è chiamata regno dei cieli: perché differisce dal regno di questo mondo, e perché è ordinata al regno eterno e non soltanto al dominio temporale. Quindi Cristo, per togliere dal cuore degli uomini il sospetto che avesse assunto il principato per dominare nel mondo, e che questo fosse il suo fine, come lo è degli altri prìncipi, scelse una vita misera, pur essendo il vero Signore e Re; poiché «il principato fu costituito sopra la sua spalla», secondo l’espressione del Profeta.
Ciò fu predetto ottimamente con le parole di Isaia già riportate: perché in primo luogo lo presenta umile e misero, «Ci è nato un pargolo»; aggiungendo poi a questa piccolezza la virtù e l’eccellenza del suo dominio: «Ci fu dato il Figlio». Infatti poiché in Cristo l’umanità era unita con la divinità, come suo strumento, egli era di una virtù onnipotente. Ecco perché il Profeta descrive qui il suo ineffabile dominio con molte espressioni di singolare potenza, le quali devono essere sottolineate tutte una per una, come spiega San Girolamo e come appare evidente dall’ordine delle espressioni.
Primo, per far notare la sicurezza e la solidità del suo dominio, è detto: «Il suo principato è stato posto sulle sue spalle». Poiché le cose che sono portate sulle spalle sono più stabili: è in questo modo infatti che i pesi vengono trasportati più saldamente. Secondo, per sottolineare la novità del suo potere, sta scritto: «E sarà chiamato col nome di Ammirabile», poiché egli è degno di ammirazione, perché, pur essendo umile e povero, è tuttavia Signore del mondo. Terzo, per far rilevare la chiarezza della sua sapienza, qualità che è particolarmente necessaria ai prìncipi (poiché si legge: «Guai al paese che ha per re un fanciullo», Ecclesiaste, 10, 16; il che accade quando il principe non può deliberare nulla da sé, ma agisce, anzi, per meglio dire, «è agito», mosso dall’altrui consiglio), si aggiunge «consigliere». Quarto, si accenna alla dignità del suo dominio, chiamandolo «Dio». Poiché, infatti, in Lui c’è una sola ipostasi e una sola persona, nella quale sono unite la natura divina e quella umana; e siccome il principato di Cristo agisce in virtù della sua divinità, si aggiunge l’appellativo di «forte». Il principato di Cristo, infatti, riceve l’influsso dalla virtù divina, la quale era in Lui personalmente; potenza di cui Cristo usò durante la Passione, quando i Giudei volevano ucciderlo e Lo cercavano. Allora, appena egli disse: «Sono io», subito caddero a terra, come sta scritto nel Vangelo di San Giovanni.
Tale potenza va al di là dei limiti imposti al suo vicario: poiché risulta chiaro che il Vicario dì Cristo non è Dio, e in questo il potere di Cristo trascende quello dei suoi vicari; cosicché Cristo, a proposito dell’ordinazione e del governo dei suoi fedeli, poté fare molte cose che San Pietro e i suoi successori non hanno potuto, come sopra abbiamo spiegato.
Da questa stessa considerazione, cioè dal fatto che egli era bambino, si deduce la sesta singolare condizione del suo dominio: la benignità nel governare, essendo presentato come «padre del secolo venturo». E questo lo possiamo riferire alla pienezza della grazia; perché coloro che ne sono pieni portano facilmente ogni giogo della legge. Per questa ragione San Paolo scrive (Gal., 5, 18); «Se vi lasciate condurre dallo Spirito non siete più sotto la legge». Perciò per governare su persone simili non è necessaria la verga di ferro: e questa particolarità è propria del principato di Cristo.
La settima ed ultima condizione si deduce dalla stessa causa, ossia dalla tranquillità del suo governo, e vi accenna l’espressione: «principe della pace», sebbene si tratti non della pace del corpo, ma del cuore. È questa che Cristo nostro re e principe ha offerto da vivo e ha lasciato ai suoi discepoli. Dice infatti: «Vi ho detto queste cose perché abbiate la pace in me. Nel mondo avrete tribolazioni; ma confidate: io ho vinto il mondo!» (Gv., 16, 33). Anche questo è proprio soltanto del suo principato. Dunque egli fondò il suo dominio nell’umiltà e nella povertà, nelle avversità, nelle fatiche e tribolazioni; cioè nella stessa maniera in cui, secondo Catone, si era dilatato il dominio di Roma, ossia non col fasto e con le pompe della superbia, come riferisce Sallustio, e come anche Valerio Massimo dimostra.