Indios e identità: un solo nemico una sola barricata

 

Indios e identità: un solo nemico una sola barricata

Negli ultimi mesi sembrano essere tornati “di moda” gli indigeni americani, volgarmente chiamati “indios”. Aveva cominciato, a marzo, il nuovo Presidente del Messico, il populista di sinistra Andrés Manuel López Obrador, a pretendere scuse dalla Spagna e dal Papa per la conquista avvenuta cinque secoli prima. Viceversa, il suo omologo brasiliano, Jair Bolsonaro, si era distinto per un approccio del tutto opposto, fortemente antagonistico verso i popoli indigeni del Brasile, colpevoli di abitare da millenni su territori ricchi di risorse naturali. Successivamente, ad ottobre, si è tenuto il Sinodo per l’Amazzonia, con annessa polemica sull’inculturazione, intensificata dall’esposizione di alcune statuette di Pachamama in una chiesa romana. Infine, si arriva ai recenti avvenimenti in Bolivia, con il rovesciamento eversivo del Presidente Evo Morales, il primo Presidente indigeno eletto in Sud America.

In tutti questi casi, la trattazione del tema nel dibattito nostrano, tanto per cambiare, ha lasciato a desiderare. A sinistra sono rimasti fermi al mito rousseauiano del buon selvaggio, ma questo non ci deve stupire, vista la tendenza di certo pensiero neo-illuminista a baloccarsi con degli idealtipi privi di corrispondenza nel reale, come i ribelli moderati siriani e il capitalismo etico. I governi indipendenti post-coloniali, ricollegandoci al primo esempio, hanno colpe più gravi, nei confronti degli indigeni, che non la Chiesa o la Corona di Spagna, i quali s’impegnarono fin dal principio, ancorché spesso invano, per tutelare le popolazioni native dall’avidità feroce di coloni e conquistadores. Né – a dirla tutta – si sentiva davvero il bisogno di un sinodo apposito per la regione amazzonica, oggi che le nuove frontiere dell’evangelizzazione sono l’Africa e l’Asia orientale.

Tolti questi sassolini dalle scarpe, il variopinto mondo delle destre, più o meno sovraniste, ha dato occasione di confermare la generale miseria e subalternità intellettuale che connota la maggioranza silenziosa da oltre mezzo secolo, come denunciato già da Adriano Romualdi e Julius Evola. A sentire certi personaggi, la colonizzazione delle Americhe sarebbe stata l’opera filantropica di disinteressati governi e solerti ONG desiderosi, quali novelli Prometeo, di portare ai selvaggi pagani, fino allora dediti a scannarsi a vicenda, il fuoco della civilizzazione occidentale, consistente in Bibbia, fucile e superalcolici. È questa un’immagine perfettamente sovrapponibile alla retorica che promana dalla Casa Bianca, indipendentemente da chi ci abiti in quel quadriennio. La sinistra globalista sostituisce la predetta triade con diritti umani, sodomia e droga, ma è una variante più formale che sostanziale.

È un’immagine profondamente razzista, ma di un razzismo, in fin dei conti, pienamente approvato e, anzi, promosso, da ogni eventuale Commissione Segre. Lo spiega bene Aleksandr Dugin (La Quarta Teoria Politica, p. 50): «l’ideologia del progresso è in sé razzista. L’assunto per cui il presente è migliore e più soddisfacente del passato, e le continue rassicurazioni che il futuro sarà ancora meglio del presente, sono discriminazioni contro il passato e il presente, ed umiliano tutti coloro che nel passato hanno vissuto». Il destrorso che ritiene gli indios arretrati e pagani si scava dunque inconsapevolmente la fossa, accettando questo discorso, che a sua volta legittima le accuse di arretratezza che riceve da parte dei sinistrorsi e la cancellazione della propria piccola impresa dalle forze cieche del Mercato globale.

Tra l’altro, sono accuse che spesso e volentieri non reggono al vaglio della Storia. Le popolazioni andine, adoratrici del Sole (Inti) e della Madre Terra (Pachamama), diedero vita a varie e complesse realtà politiche, culminate in un Impero (quello Inca) in grado di governare territori immensi, con una rete di strade montane e ardite costruzioni ciclopiche, tuttora sbalorditive – in un’epoca in cui in ampie regioni dell’Europa settentrionale e orientale, erano ancora costellate, al più, da capanne e chiese di legno, che rompevano la monotonia di immense foreste vergini.  In particolare, i Mapuche del Cile, fiero popolo guerriero, oggi in prima linea nelle proteste contro il neo-pinochetista Piñera, seppero resistere per secoli alla dominazione straniera.

A ragione, i nazionalisti iberoamericani, anche non indigenisti, hanno sempre rivendicato con fierezza la loro eredità mista. Basti citare il messicano José Vasconcelos, ammiratore dei fascismi europei e teorico della Raza cósmica meticcia, o il saluto «Anaué» di origine tupi e fatto proprio dagli integralisti brasiliani. E ancora oggi, in Peru, il Partido Nacionalista è quello etnocacerista dei fratelli militari Antauro e Ollanta Humala, teso a scagliare il Sangue quechua contro l’Oro dei gringos e del clan Fujimori. E in Bolivia, c’è ben poco di marxista nel socialismo comunitario del Movimiento Al Socialismo, nato dalla sintesi tra il falangismo di sinistra (e azul sono ancora le bandiere di Evo Morales!) e il sindacalismo indigeno. Non a caso, hanno avuto contrari gli sparuti marxisti locali: i maoisti di Sendero Luminoso, massacratori di contadini, e i sovversivi trotzkoidi, eterni utili idioti.

Dice bene allora il filosofo argentino Alberto Buela (L’Ispanoamerica contro l’Occidente, p. 13): «dobbiamo cercare la nostra identità nel “miscuglio tra cattolico e indigeno”. Quando parliamo di “cattolico” non ci riferiamo ad una categoria confessionale, bensì al tratto distintivo che caratterizza la Weltanschauung dell’uomo europeo sbarcato nelle terre del Sud». Proprio il cattolicesimo, storicamente, ha sempre convissuto con sopravvivenze e costumi pagani, specialmente in ambito rurale, fedelmente alla prospettiva paolina dell’omnia probate, bona tenete. E allo stesso modo del nostro Sud, dove non sono bastati 2000 anni per cancellare ogni residuo precristiano, avviene nelle Ande e in Amazzonia. Incidentalmente, proprio da queste parti, in Paesi indiolatini e socialisti, come Bolivia, Venezuela, Nicaragua, Ecuador, resistono alcune delle legislazioni più severe nei confronti del crimine dell’aborto, nonostante la pressione dei liberali di fuori e di dentro.

Per questo, gli evangelizzatori odierni, ormai sempre più a rimorchio degli evangelici, strappano fin un sorriso, nella loro ingenuità. Dove non è riuscito il meglio del cattolicesimo controriformista, quello dei gesuiti e delle missioni – spesso in prima linea a difendere gli indigeni dai soprusi dei bianchi –, questi pensano che possa riuscire la fragile Chiesa post-conciliare, sia pure quella conservatrice sposata dalle vedove di Ratzinger, o dagli orfani di Wojtyla – alla cui santa presenza si svolse il famigerato incontro ecumenico d’Assisi? Oppure, questi tradizionalisti del Sabato (più che della Domenica) hanno abbracciato quell’ecumenismo che negano a parole, finendo per ammettere che le Bibbie mutilate e iconoclaste delle sette protestanti sono migliori e preferibili rispetto al cattolicesimo sincretico e popolare, che venera la Pachamama col nome della Virgen de Candelaria (e viceversa)?

I sovranari nostrani, ascari fedeli di Trump, giungono al punto da tradire la propria identità profonda europea, pur di piacere ai sacerdoti dell’American Way of Life, ma hanno ancora da imparare. I loro maestri, nell’ignobile arte di lustrare le scarpe (quando va bene) con la lingua, sono sempre Oltreoceano, ma un po’ più a sud. Dopo l’autoproclamato Carneade Guaidó, e il vicepresidente nazional-militar-cattolico di 33° grado, Hamilton Mourão, la Bolivia ci offre un altro di questi personaggi, che cercano di sbiancare la pelle bronzea con il detersivo della fedeltà all’imperialismo a stelle e strisce. L’autoproclamata presidentessa Jeanine Áñez, coi capelli tinti di biondo sui lineamenti meticci, ha riportato in auge la Bibbia (tanto feticizzata dai nipotini di Lutero e Calvino) di contro a – parole sue – i «riti satanici» degli indios, che farebbero bene a stare – sempre parole sue – «nell’Altiplano o nel Chaco», non in città. In questi “negri da cortile”, al servizio dello Zio Sam e del FMI, riemerge pappagallescamente lo stesso disprezzo professato dalle élite globaliste per le tradizioni e le culture dei popoli – che laddove non possono essere edulcorate per farne souvenir da mercato turistico, costituiscono fastidiosi ostacoli al libero flusso dei capitali.

Il popolo di destra può ben seguire il suo Capitano su questa strada, fino a farsi perdonare le intemperanze da populisti indisciplinati ed essere ritenuti dal Padrone botoli affidabili, a cui gettare (forse) ossi e briciole. Oppure smettere di scimmiottare le parole d’ordine del Pentagono, e comprendere che nella lotta per la sovranità nazionale, tutti i popoli sono fratelli, e che il semplice slogan «Padroni a casa nostra» vale a tutte le latitudini.

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