L’immaginazione al potere

 

L’immaginazione al potere

Alfine don Chisciotte è vinto, la febbre scioglie l’incantesimo della pazzia, le goffe gesta del Cavaliere errante si dissolvono come nebbia e lui si risveglia da Alonso Chisciano, detta testamento, lascia la sua Mancia, muore pentito nel gregge dei normali colui che “disprezzò l’universo intero fu lo spaventacchio e il baubau del mondo, ed ebbe la gran fortuna di viver matto e di morir savio” secondo l’epitaffio del baccelliere Carrasco. Il tedio dell’assennatezza torna in sella in vista del traguardo, peccato perché come sovente ripeteva Federico Fellini “al di sopra del pensiero c’è l’immaginazione” che racchiude il mondo come asseriva A. Einstein. Quell’universo magico della fantasia libero dai lacciuoli dei Lillipuziani, senza un dio, templi, sacrifici perché lui stesso è padre e madre di tutti i miti.

L’età beata dell’infanzia che fu nostalgia per Leopardi, con la sua trasognata capacità di costruire e disfare a piacimento l’invisibile, purtroppo con la scuola cede alle ragioni del gregge, si dirada e l’ego entra nell’ovile, obtorto collo anche la pecora ribelle, riprenderà a fantasticar di draghi all’imbrunire della sera, con la vecchiaia, sciolta finalmente la durezza della vita reale, regina della normalità banale, rassicurante tranquillità della caverna di Platone, la canuta età riscopre il paese dei balocchi, ma gli Ippocrati sentenzieranno  che è una malattia.

Cent’anni fa (20 gennaio) nasceva, occasionalmente, a Rimini Federico Fellini da una famiglia senza grilli per la testa, bambino schivo, assai poco balilla, disinteressato allo sport come alla retorica vanità della Provincia, godeva nella sua stanzetta del viaggio onirico di Little Nemo col suo mondo di sogni illustrati da Winsor McCay, la Principessa, i mostri, le avventure che si spegnevano al mattino con lo “Svegliati” di Flip, ma c’era anche quel teatrino di marionette in cartapesta, le sue caricature schizzate, la magia del circo e le immagini di quella fabbrica dei sogni che era il cinema.  

Questa la valigia di cartone che il giovane demiurgo dell’immaginazione portò con sé gelosamente a Roma (città materna) aprendola poi nel mitico Studio 5 di Cinecittà. dove quei sogni, all’apparenza un po’ folli, simili a pezzi sparsi di un puzzle, si ricomponevano in tessuti di seta o ruvido cotone, sogni o carne, innocenza ed eros della donna, misteri contro le ragioni della sessuofobica morale, come di quelle sue curiosità paranormali e non per niente fu amico di Gustavo Rol.

In luogo dei romanzi cavallereschi virali, a detta del curato, per la follia del Cavaliere dai Leoni, il piccolo Federico rubò le ali per volare ai trapezisti dei circhi, alla gaiezza triste e baruffona dei clowns, agli eroi in bianco e nero del cinema Fulgor, affondando nei seni giunonici della tabaccaia, nel mondo di ricordi e sensazioni, coriandoli preziosi della sua infanzia e adolescenza. Nuotava in una galassia irrazionale dove fantasia e realtà si combattevano il ruolo da protagonista della vita scegliendo lui di fare della seconda il paggio della prima.

In tal senso ci appare summa del suo viaggio un capolavoro assoluto della settima arte, quel del 1963 (settimo lungometraggio firmato Fellini più tre cortometraggi di film ad episodi), film in bianco e nero, confessione del vuoto esistenziale dell’affermato regista Guido Anselmi in crisi narrativa.

La realtà preme a tutta forza perché il film prenda forma, il cinema è un’industria, obbedisce alla dialettica capitale-profitti, produttore e maestranze chiedono una storia vincente, soggetto, sceneggiatura, ciack ma il tempo scorre e non si va oltre qualche provino, perché il film non c’è, è una tela bianca sulla quale si affollano i ricordi dell’infanzia, sogni, fantasticherie, interrogativi prendono possesso del lavoro del regista. l dover fare e bene un prodotto di successo al botteghino si arena col lasciarsi andare dell’Anselmi all’universo quasi onirico di tutti i personaggi incontrati nella propria esistenza, non dissimili a quelli creati dalla fantasia dei romanzi cavallereschi divorati dell’hidalgo della Mancia, tanto rapito dalle loro gesta da imitarle perché eretico alla quieta normalità del governar le proprie cose.

Così quando il regista è con le spalle al muro e deve ammettere, in conferenza stampa, il proprio fallimento perché non ha un briciolo d’idea per imbastire il film, quando il set si smontae  cala il gelo della scarna realtà coi suoi doveri, ecco il finale salvifico, quasi una danza di Matisse di tutti i personaggi conosciuti, gli sfilano dinanzi e lui li dirige, li compone quasi fossero parti di un patchwork, ciascuno col proprio colore, tessuto, cuciti assieme formano il mondo fantasmagorico di un bambino dove l’immaginazione è l’unica sarta capace di cucire assieme tutte le immagini del mondo per varcare la soglia del  reale. E’ quello il soggetto del film.

Ecco Fellini non s’ è piegato al maglio della normalità, ha continuato a giocare, come lui stesso affermava, nel paese dei balocchi, si scherniva per questo del canto delle sirene del successo, eppure ha vinto 5 premi oscar, ha rifiutato due lauree honoris causa (Università di Urbino e Bologna), non si è convertito tornando a belare in un gregge che non gli apparteneva e in questo è stato assai più saggio del Cavaliere dalla Triste Figura facendo suo l’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam portando, con la sua opera, l’immaginazione al potere.

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