La maschera di Ligabue

 

La maschera di Ligabue

Sit tibi terra levis (la terra ti sia lieve) Flavio Bucci, maschera prestata a Toni il “tedesco” di Gualtieri, l’Antonio Ligabue di padre ignoto, orfano di madre e fratelli, cognome adottivo, espulso dalla sua Svizzera, habitué di manicomi (come Van Gogh), pittore espressionista per autoanalisi liberatoria da solitudine e follia, la tela il lettino bianco sul quale raccontare un io selvaggio come gli amati animali.

L’attore torinese (classe’47), con DNA meridionale, colse il pomo della notorietà orizzontale nel ’77, attraverso  quell’ elettrodomestico, come la scherniva Fellini, della televisione dando corpo e soprattutto anima al personaggio dell’artista naïf  in una mini sceneggiato,  firmato da Salvatore Nocita;  tre puntate in onda nel tardo autunno dedicate alla vita del matt della Bassa, scoperto, tra i boschi lungo il Po, dallo scultore romagnolo Marino Mazzacurati, il primo che gli regalò i colori a olio coi rudimenti del mestiere perché la  tecnica sposasse la vocazione.

Bucci si incarnò talmente nel personaggio da diventare egli stesso Ligabue dandogli, nell’immaginario identificativo, volto, voce, comportamenti divinatori accompagnati da quell’ espressione stralunata di colui che viaggia nudo nella follia di uomo maledetto dalla vita. Ancora oggi, nel dare notizia del suo decesso, il commento mediatico, molto precotto, pone quella maschera del Toni all’apice della sua lunga stagione di attore.

Quattro anni dopo eccolo indossare cappa e cappello neri di Don Bastiano nel Marchese del Grillo di Mario Monicelli, con un’arringa-testamento der prete matto e brigante recitata sul patibolo davanti a ‘n popolo di pecoroni invigliacchiti sempre pronti a inginocchiarsi ai potenti e per questo padroni di un cazzo, monito tutt’ora calzante a pennello alle masse lobotomizzate.

Scorrendo la sua opera di vita sbattuta in faccia, fuori dai guard rail della normalità insignificante, sì possiamo dire che ha vissuto per intero, non a canzonette, una vita spericolata pago di aver volato nell’abisso; “non mi pento di niente” aveva dichiarato in un’intervista.

Lui Dioniso sulle scene è stato un elogio della follia, menade danzante per i suoi personaggi, irriverente al tu devi del cammello, ruggito con accento pugliese di libertà da ogni catena. Diede vita sulle tavole del palcoscenico a quell’  Aksentij Ivanovič Popriščin soggetto del diario Le memorie di un pazzo di Gogol, suo trentennale  cavallo di battaglia, senza qui enumerare le sue interpretazioni da mattatore di personaggi pirandelliani contro la normalità alienante del comandamento sociale di apparire.   

Sembra qui paradossale o irriverente citare una frase del Vangelo di Matteo là dove il Maestro dice ai discepoli: “Se non cambiate e non diventate come bambini, non entrerete mai nel Regno dei Cieli” accostandola a Flavio Bucci, e invece questa nostra riflessione coglie in lui proprio lo spirito del bambino, l’ultima delle tre metamorfosi indispensabili alla morte dell’ultimo uomo (quello mediocre) perché sorga l’ alba dell’oltreuomo (Übermensch) incarnazione dionisiaca del fanciullo nel Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche. 

Quando si muore è vezzo disgustoso occhiare tessere e fede scansando, da grilli parlanti, l’innocente follia dei piccoli che non subiscono il mondo ma lo creano, lo smontano e rimontano a loro piacimento, liberi di, non da, danzando con l’immaginazione ed il piacere. Forse anche per questo Bucci amava Giacomo Leopardi nella sua amara riflessione sulla fanciullezza ricca di premesse e speranze, scevra dalla gabbia dei condizionamenti.

Ciao Bucci tu eri bambino pago dei propri giochi fino al limitar di vita.

Grazie.

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