Lettera 22

 

Lettera 22

Correva il 27 febbraio 1960, l’anno di Livio Berruti alle Olimpiadi romane, sul treno direzione Losanna sedeva Adriano Olivetti, 58 anni di Ivrea, direttore generale dell’omonima azienda di famiglia, in viaggio d’affari finanziari in Svizzera per spuntare un’apertura di credito bancario da investire nelle sue ardite scommesse industriali.

Lasciatosi alle spalle il traforo del Sempione, il convoglio era in vista della stazione di Aigle quando l’ingegnere eporediese fu colto da malore, emorragia cerebrale, traguardo imprevisto della sua splendida corsa. La morte, si sa, non capisce un c…o gelida, biologica, è indifferente alle ragioni dell’essere. Non fu eseguita l’autopsia dando la stura a ipotesi di decesso per complotto, quell’imprenditore era fuori dal coro, spiato dalla CIA, ma niente fu mai provato, amen, come per Enrico Mattei.

Quali erano le rischiose puntate di Adriano sul tavolo da gioco? Riassunte in una parola sola: Informatica. La Olivetti era un’azienda all’avanguardia, aveva già prodotto per il mercato nazionale ed internazionale le sue leggendarie macchine da scrivere fisse o portatili, icone di segretarie e giornalisti (mitica la Lettera 22 tanto amata da Indro Montanelli) ma anche la Divisumma 14 (prima calcolatrice elettromeccanica al mondo) e l’Elea 9003 rivoluzionario calcolatore a transistor. Al fiuto finissimo di un imprenditore d’alta quota non sfuggiva l’imminente tsunami della tecnica dei circuiti integrati, gli studi della Fisica sui semiconduttori, il silicio e il germanio “drogati” avrebbero a breve stravolto il mondo del calcolo, dell’informazione e sequenziale interconnessione. Era quello il campo nuovo nel quale seminare per un’impresa leader a livello internazionale, era la sfida sulla quale puntare tutte le fiches dell’industria elettro-meccanica italiana. Adriano, da sempre chiaroveggente degli sviluppi tecnologici della ricerca, aveva colto profeticamente l’avvento di sua maestà l’elettronica applicata ai calcolatori ed ai prototipi de i PC (non per niente nel ’57 la Olivetti aveva cofinanziato la nascita dell’italianissima Calcolatrice Elettronica Pisana).

Ma mentre lui coglieva l’alba di una nuova era il miope (volutamente?) comitato di risanamento economico dell’azienda (Fiat, Pirelli, Banca Centrale, Mediobanca, IMI), post mortem suam, si girerà invece al tramonto della meccanica, finendo tragicamente col cedere la Olivetti S.p.a. al caimano General Electric, firmando così il più grave errore dell’industria IT del nostro Paese.

In epoca di capitalismo saturnino, quando perfino un virus si trasforma in clava contro la concorrenza e in programmata usura finanziaria, il ricordo, perché no un po’romantico, della figura di Adriano Olivetti ci riapre una finestra chiusa con la sua morte. Il paesaggio che scrutiamo increduli è caratterizzato dall’integrazione osmotica delle attività dell’uomo, dialogo sereno tra architetture razionali e fruitori, lo spazio progettato accoglie la persona, la sostiene, risponde alle sue esigenze funzionali ma anche estetiche elaborate in armonia con l’habitat del territorio, perciò riconoscibili nella storia degli abitanti, nella cultura stratificata della comunità caratterizzatasi, nel tempo, da una modalità unica dello stare insieme facendo sistema. Ecco nascere un modello inclusivo di fabbrica corredata di uffici, mense, le case delle maestranze attigue agli spazi di lavoro, gli asili, il verde attrezzato, i luoghi di ritrovo, le biblioteche, persino le gallerie d’arte, il tutto progettato con rigore urbanistico perché l’utopia profitto–solidarietà sociale avesse un corpo e un’anima, ricreando una comunità vivente.

Dicitur nome omen l’Adriano di Ivrea, come l’imperatore, spaziava ben oltre i confini dell’ingegneria chimica, sua laurea al Politecnico di Torino, planando sulle nuvole soft delle Belle Arti, del design industriale (gli fu assegnato il Compasso d’oro nel’55), della letteratura e poi giù a scandagliare i sentieri della filosofia, della teologia (alla radice della sua conversione al cattolicesimo), delle scienze sociali, senza trascurare teatro, musica, editoria  tutti interessi che, nel loro insieme, lo condussero a formulare un pensiero politico originale, sintesi alchemica di socialismo e liberalismo, l’Umanesimo del Capitalismo assolto se il profitto è reinvestito per migliorare progressivamente l’umanità che lo incontra sul lavoro.

Per dare carne ed ossa a questa sua creatura ideale Olivetti sposò l’Urbanistica moderna del MIAR, del Movimento Moderno, nella convinzione che una razionale pianificazione delle aree urbane fosse la terapia strategica a sedare le conflittualità sociali creando le condizioni dello ”star bene con sé è star bene con gli altri”, quel vincolo comunitario fatto di mille cordoni ombelicali col proprio territorio e la sua gente  (fu in questo federalista ante litteram) ed accendendo una luce fortissima nel buio alienante del vivere per produrre dove si esaurisce il presente nihilismo esistenziale.

La classe operaia con Olivetti è andata in Paradiso o per lo meno lui ha provato a portarcela, con salari più alti, case e fabbriche progettate dai maggiori architetti, dignità piena per tutti senza discriminazione alcuna, servizi scolastici, sanitari, assistenziali a supporto dei lavoratori, sicurezza colonie estive e borse di studio per i loro figli, possibilità di carriera dei singoli premiando il merito e soprattutto curando tutto questo fin nei minimi dettagli perché la vita fosse realizzata in tutti i suoi aspetti. La bellezza ha un costo altissimo di abnegazione fino a sfiorare il cinismo pur di coglierne i frutti, si progetta lavorando sodo, senza vetrine di mondanità narcisista, calandosi nella tuta blu che veste le ore nere di un operaio (lui lo ha fatto), solo così è possibile costruire l’umanesimo della fabbrica riscattando la dignità dell’uomo nella sua interezza.

In contro altare ci sovviene alla mente il dramma dell’ILVA che uccide la città di Taranto, un modello di vergogna.  

Fra le tante sue idee fondò anche il Movimento Comunità, una terza via a noi molto cara, col quale si conquistò un seggio in Parlamento, poi, venuto a mancare il suo di motore, il partito si sciolse lasciando però una traccia profonda sulle dune del deserto che attraversiamo, il ghibli non l’ha cancellata, è un guanto di sfida da accettare, un progetto da cui ripartire.

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