Della solitudine e dell’isolamento

 

Della solitudine e dell’isolamento

Ero ancora studente all’università, non ricordo l’anno preciso, credo intorno alla metà degli anni ’60, curioso comunque e avido lettore da sempre. Come arrivai all’Angelicum, nei pressi di via Nazionale, anche questo non ricordo. Certo ebbi occasione di ascoltare la lezione del teologo e filosofo Johannes Lotz, influenzato dal pensiero di Martin Heidegger, di cui era stato discepolo all’università di Friburgo, e dall’esistenzialismo (questo l’intesi negli anni a venire, dopo l’approfondimento di tanti temi del filosofare, soprattutto dopo aver letto – e ne trassi spunti di riflessione di cui tuttora mi rendo conto – dello stesso Lotz ‘Della solitudine dell’uomo’, libro che ho conservato fra gli scaffali della mia biblioteca, nonostante il trascorrere del tempo e il trasloco – ottobre 2009 – in cui ho dovuto abbandonare un centinaio di libri e forse più).

Della solitudine o dell’isolamento? In questi tempi di diffusione del coronavirus con cui dobbiamo oramai tutti confrontarci nella prigione od eremo che sono le nostre abitazioni ove ci hanno relegato le onnivore forme di democrazia… Il globalismo fa sì che la Cina (che fu illusione con il libretto rosso di Mao e la rivoluzione culturale) e gli Stati Uniti (reiterato senza illusioni e molti inganni quel male americano capace di proporre e disporre) e l’Europa, vecchia bagascia a noi cara (se esiste ancora e certo non nelle sue pretese d’oggi), e le ulteriori facce del medesimo puzzle si confondono in magma informe e becero, in brulicare di vermi sul cadavere di genti che furono un tempo ricchezza di diversità e conflitti. Osservo dalla finestra, sul terrazzino, squarci di palazzine, annoto poche bandiere tricolori, i vetri chiusi e spenti, alle 18 qualcuno tenta di rianimare con musica a tutto volume e qualche inquilino a battere le mani. Sempre più stancamente. Sconfitti atomizzati in attesa che ‘la nottata ha da passà…’ senza il tepore dei giorni a venire e la guida di stelle danzanti.

George Orwell e 1984, ad esempio – il profetismo dello scrittore reso ‘archeologico’ dalla realtà che conosce percorrenze di accelerazione tali da saper andare ben oltre la nostra fantasia, le intuizioni più ardite della parola scritta. Eppure ancora con essa e la molteplicità dei significati ci dobbiamo attrezzare. Così distinguo, nella comune condizione di reclusione (prigione o eremo?), la solitudine dall’isolamento. La prima conserva il carattere della scelta, della ricerca interiore – Ezra Pound ci dona i Pisan Cantos dalla gabbia e poi dal S. Elisabeth Hospital – forse ci porta verso una libertà più grande e, al contempo, un incontro con la natura e l’altro (fino a Dio?). Senza la solitudine interiore la follia di Nietzsche sarebbe rimasta triste condizione di muto isolamento. Il secondo è qui ed ora, con o senza la minaccia della pandemia, nelle unità monocellulari dell’anonimato urbano.

Ognuno inconsapevole prigioniero di sé stesso ove la finestra s’apre sul nulla e dietro ogni porta serrata il nulla aleggia e si condensa all’interno, cella di un mostruoso alveare – società e non comunità -. E forse vi tornerò, intrigante richiamo della parola, alquanto simile al serpente che si morde la coda per racchiudere nel cerchio magico venuto a crearsi il valore e l’eco della solitudine le sbarre e i chiavistelli dell’isolamento.

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