Il veleno del mondo

 

Il veleno del mondo

L’aria mite saluta gli steli alti, che si perdono a vista d’occhio. Le punte luccicano, al sole mattutino. Un uomo avanza, il passo lento; in una mano un cestino di vimini, nell’altra una falce. Il campo è soffocato da molte erbacce e fiori cattivi. L’uomo li taglia con colpi violenti ma precisi. Qua e là, nascosti dalle erbacce, spuntano alcuni piccoli fiori dal dolce profumo. Ogni volta che ne scorge uno, l’uomo sorride, lo coglie e lo ripone con cura nel suo cestino. Il caldo intanto addensa l’aria e a mezzodì, le gambe e la vista si son fatte pesanti, così l’uomo decide di riposarsi sotto un grande albero. Mangia qualcosa, poi, calandosi il cappello sugli occhi, si addormenta, il cestino poggiato sulle gambe. Mentre sprofonda nel sonno, i fiori che aveva colto, iniziano a sbiadire e a rilasciare esalazioni velenose. L’uomo non si accorge di nulla; la troppa stanchezza non lo fa risvegliare. Dorme con un’espressione beata, come quella di un bambino dopo aver giocato per ore. E ancora dorme, mentre il sole comincia la sua discesa nell’arco ancora azzurro, dorme, e alla fine muore. Il fato gli è stato avverso o i suoi occhi sono stati ingannati dalla falsa bellezza?

Tale è il destino assegnato a molti che oggi credono di non essere contaminati dalla mentalità del mondo. In realtà lo spirito di questo tempo gli è penetrato nel sangue come un veleno invisibile e per questo mortale. Si illudono di aver trovato, nascosti in mezzo a tanto squallore e perversione, dei bei fiori profumati – buone idee, retti valori, opere di bellezza – ma lo hanno fatto nel terreno della modernità, che è terreno di morte. Non basta guardare il colore raggiante dei petali per riconoscere la bontà di un fiore. Bisogna osservarne la linfa e le radici, bisogna infilare le mani nella terra su cui nasce per riconoscere se è terra che dà vita o morte. Allo stesso modo non basta ammirare le “buone idee” lassù in alto se poi dimostriamo di non essere capaci di portarle giù a terra, di incarnarle.

Attacchiamo il liberismo spietato e senz’anima, ancor più ora che mostra la sua disumanità in un mondo che si sgretola, ma in verità ci scopriamo irrimediabilmente individualisti (essenza di tale ideologia). L’uomo infatti è per noi una monade col pieno controllo del suo destino, a volte luminoso, più spesso tragico, quando, al contrario, dovremmo sperimentare sin nelle viscere – e non è un eufemismo – che ogni persona è parte di un tutto, di un corpo mistico, nel quale, anche se un solo membro soffre, l’intero corpo diviene malato; per cui non vi può essere piena salute di un organo se l’intero corpo non lavora alla guarigione. L’espiazione ha da essere sempre collettiva.

Abbiamo sovente sulla bocca la parola famiglia, ma giammai testimoniamo come essa – anche e ancor più quella allargata – si costituisca come il luogo primario in cui si riconoscono e si coltivano le specifiche vocazioni di ognuno. Vocazioni che, non potendo mai essere disgiunte da un discorso di Verità, portano alla piena e armonica realizzazione di ogni personalità; ci compiacciamo, al massimo, nel sostenerne le passioni purché questo non rompa le consuetudini dell’organizzazione sociale, non ci obblighi a saltare lo steccato della normalità e conduca al fine che tutti accomuna: una vita tranquilla e più che dignitosa.

Reclamiamo il rispetto della Qualità, ma sempre e solo se subordinato alla Quantità, mai in opposizione. Quante cose abbiamo fatto, quanti titoli possiamo vantare, quanto sappiamo essere versatili ed eclettici. Ma la Qualità svela l’essenza di una determinata cosa e di una persona; non la si può “misurare” con gli strumenti che il mondo usa abitualmente. La Qualità è situata ad un altro livello, ben più profondo e nascosto, e per essere raggiunta, veduta e portata alla luce, bisogna gettare nella spazzatura tutti i criteri quantitativi del “normale vivere sociale”. È un sacrificio al quale non sembriamo disposti.

Inveiamo contro chi attacca la Vita, senza però sapere cosa essa sia veramente. Perché la Vita è tradizionalmente associata al Suono, come la Verità alla Luce, e il Suono è il giusto ritmo del Cosmo: noi invece viviamo “fuori tempo”. La Vita spunta sempre da una crepa, da una feritoia, da un buco lungo la strada. È un imprevisto, ma non accettiamo che l’imprevisto per un’altra persona, siamo noi. «C’è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce», cantava Leonard Cohen. Questo mondo è pieno di crepe, ma noi fissiamo i calcinacci caduti a terra, anziché vedere la luce che filtra dentro.

In questa nauseabonda società, le buone consuetudini rendono l’aria soffocante; per far sì che la Vita sbocci con il suo profumo, dobbiamo spezzare gli schemi, ora che le stanche forme di questo mondo vedono la loro fine. Il cammino della vita non è un largo rettilineo, dove, in bell’ordine incontriamo la nascita, poi lo studio, il primo lavoro, la famiglia e i figli e così via sino al sudato traguardo. Capita a volte di prendere un’altra strada per poi ritornare su quella maestra, o di fare alcuni passi indietro, o persino di fermarsi; ma ogni passo, ogni sosta ha il suo significato, perché non è la quantità di tragitto percorso che dice qualcosa di una persona, ma lo “stato” in cui è, lì dove si trova. L’unica cosa che davvero conta è il tesoro che abbiamo conquistato, quanto profitto abbiamo tratto dal nostro percorso. Se abbiamo percorso mille miglia, ma il nostro cesto non è colmo di sapienza e virtù – dantescamente parlando – a cosa è valso? Le vesciche ai piedi non sono medaglie al merito da esibire. Saper riconoscere tutto questo, voler ordinare una società a tale mistero, è il vero modo di santificare la Vita. Tutto il resto è illusione e puerile sentimento.

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