La malattia della Scuola italiana è certo un segno della decadenza dei nostri tempi che si trascinano agonizzante, ma che rischia oggi di ricevere il colpo di grazia dalla magnificazione della didattica a distanza, ovviamente funzionale a una bieca logica di risparmio, la sola che venga utilizzata quando si parla di istruzione. Ora, conoscere la causa di una malattia non significa guarirne, ma è comunque un buon passo in avanti, almeno per essere consapevoli di dove bisogna operare per esercitare sulla scuola un’azione davvero riformatrice in senso migliorativo. Unì’eziologia del fallimento della scuola di massa e della progressiva infantilizzazione della società è quindi fondamentale per approntare una serie di rimedi possibili. Si tratta di riforme che non possono certo venire da una classe politica che subordina e appiattisce ogni intervento sulla società sul piano economico e che forse potrebbero essere persino tardive in considerazione dello stato di avanzata decomposizione del corpo su cui si dovrebbe operare. Tuttavia, il pessimismo della ragione deve lasciare il posto all’ottimismo della volontà e alla determinazione di un serio intervento: per questo non bisogna nascondersi nulla, minimizzando il male. Nessun chirurgo a cui un malinteso senso di pietà fermi la mano che deve tagliare, potrà davvero giovare a chi soffre. Occorre dunque operare col bisturi un taglio profondo sul politicamente corretto, sulle false premesse ormai date per scontate, divenute un riflesso condizionato; in altre parole, occorre agire sulla massa tumorale della nostra Scuola e, di riflesso, della nostra società.
«I figli degli uomini fra i piccoli di tutti gli animali sono i più difficili da trattare: quanto più hanno infatti la fonte del pensiero ancora indomita, sono fra tutti gli animaletti i più insidiosi, i più astuti, i più ribelli. Bisogna perciò tenerli a freno con molti legami, quali per i cavalli i morsi, e appena escono dalle mani della nutrice e della madre, bisogna disciplinarli per mezzo dei pedagoghi perché appunto sono ancora bambini e inesperti, poi con i maestri dei diversi mestieri e con le diverse discipline che si convengono a un uomo libero». Così Platone, nelle Leggi VII, 808 d-e, illustrava la filosofia sottostante alla pratica educativa greca. Sia la rude agogè spartana, sia la paideia ateniese, partivano infatti dal medesimo presupposto, oggi incredibilmente dimenticato, o meglio ipocritamente negato: ovvero che lo scopo del bambino è diventare adulto e tutte le azioni e gli strumenti pedagogici devono avere di mira quest’obiettivo, non dimenticando mai che il bambino non è ancora in grado di comprendere il valore di ciò che ancora non conosce, appunto perché è un bambino. Un certo grado di costrizione, di imposizione, era quindi considerato normale, anzi necessario come una medicina, per quanto amara, è necessaria per debellare la malattia.