12 aprile 1861, ore 4 e 30, quarantasette tra mortai ed obici aprono il fuoco contro Fort Sumter dove sventola l’odiata bandiera a stelle e strisce. Charleston, capitale morale della Carolina del Sud, che dal 20 dicembre dell’anno precedente ha dato il via alla secessione degli Stati del Sud.
È l’inizio della guerra civile, il pretesto tanto atteso dal neo-presidente Abramo Lincoln (aveva giurato il 4 marzo del ’61) che auspicava la creazione di una potenza industriale – e, con essa, la nascita di quell’imperialismo USA, di cui viviamo il suo esplicarsi tuttora, nonostante la Cina e la pandemia (e nulla ci vieta di pensare ad una azione andata male contro qualche laboratorio cinese). E, siamo a metà del XIX secolo, a tutto danno di parte degli Stati, legati alla produzione agricola, alle piantagioni del cotone, con una cultura raffinata e modello di vita tale da divenire paradigma (insieme a Sparta) nella riflessione ardita e sottile di Maurice Bardèche in Fascismo ’70. L’unica guerra combattuta sul suolo stesso degli Stati Uniti; la più sanguinosa (oltre settecento mila morti); preannuncio della modernità del conflitto – le mitragliatrici le corazzate in mare la resa senza condizioni, ad esempio.
Fra i vari scaffali tento mettere ordine, allineare una ventina di copie della fortunata e prestigiosa collana La Medusa della Mondadori ove, negli anni ’30 e attraverso la guerra, furono pubblicate opere di grandi scrittori, alcuni a me cari, così ritrovo del premio Nobel norvegese Knut Hamsun Vagabondi e di Ernst Juenger Sulle scogliere di marmo. Trovo anche La cavalcata del colonnello Franklin di Hervey Allen (1943), libro che rileggo volentieri, nonostante il protagonista sia ufficiale della cavalleria nordista, per un sapore genuino di terre di confine e la efficace descrizione di uno scontro breve e sanguinoso tra Unionisti e Confederati. E, impilati a fianco, Il sole bianco dei vinti di Dominique Venner (autore e libro essenziali), il più recente Dalla parte di Lee di Pasolini Zanelli e una breve storia de La guerra civile americana di Reid Mitchell (lo scritto di M. Bardèche sta con le altre sue opere, ovviamente con quelli di R.Brasillach, che gli fu amico e cognato).
Cosa mi spinse ancora adolescente a parteggiare per il Sud così come ebbi istintiva simpatia per i “pellerossa”? Ricordo un “fumetto”, Oklahoma Jim, la vicenda di un ragazzino di qualche tribù indiana, adottato da uno squadrone confederato e divenuto trombettiere. Dal libro di Venner apprendo come l’ultimo generale a fare atto di sottomissione fu Stand Watie, che era indiano e sudista – testimone dell’assassinio di due nazioni. E traggo la citazione del maggiore prussiano Scheibert, distaccato presso le armate sudiste: “Il Sud era il popolo stesso e combatteva la propria esistenza come nazione, per la propria indipendenza, per i suoi campi e i suoi focolari”.
L’amico Giano Accame amava sovente ricordare come, a ottanta anni dalla resa di Robert Lee ad Appomattox e la fine della Confederazione un libro di una sconosciuta scrittrice, Margareth Mitchell, Via col vento – e successivamente il film – riconciliava attraverso l’epopea dei vinti una Nazione, gli USA, che era rimasta comunque ostile negli animi nei modelli di sviluppo nella cultura. E si chiedeva quando e se potesse avvenire qualcosa di analogo anche nel nostro Paese tra i vincitori (?) e i vinti (!) del ’45. Vista la classe dirigente e le condizioni attuali, mi viene da pensare che forse è “meglio” restare distanti e divisi…