Il 16 marzo del ’45 Drieu la Rochelle si uccide ingerendo un tubetto di Gardenal e dopo aver aperto il bocchettone del gas. Pochi giorni prima è stato spiccato un mandato di cattura con l’accusa di collaborazionismo. Chi ha creduto e lottato per un’Europa, affrancata dai quattro venti della sua disfatta (espressione cara allo stesso Drieu), deve essere schiacciato sotto il tallone di ferro d’Occidente e d’Oriente e dei tanti loro manutengoli.
Il 6 di febbraio, nel forte di Montrouge, dodici bocche da fuoco hanno scavato la carne di Robert Brasillach per rubarne l’anima – ignare e stolide che l’anima del poeta non soggiace a processo nel suo librarsi nell’angolo di cielo ove risiedono santi martiri ed eroi. Drieu ormai ha travalicato i confini terreni del mondo e ad altro aspira. Estremo confine, simile ad arcata di un ponte tra il finito e l’Essere, la traduzione in francese delle Upanishad, l’antico testo sapienziale dell’India vedica, aperta sullo scrittoio. In Lo Stato civile e, successivamente, in Racconto segreto ci ha lasciato lucido e, al contempo, fiero e appassionato – il lungo viaggio verso la morte.
Cosa ci dicono le Upanishad – ne possiedo copia, edita negli anni ’60 (credo e certo in quegli anni ne ho fatto lettura) – con il loro impegno a mostrarci come grandezza e il suo contrario appartengono al medesimo disegno? Il Brahma e l’Atman. Il più piccolo seme di senape raccoglie in Sé l’intero universo. E ritrovo una immagine cara allo scrittore bengalese Rabindranath Tagore, il primo non occidentale ad essere insignito del premio Nobel per la letteratura, anno 1913, che fu anche interprete e sostenitore del lascito sapienziale dell’India vedica. “La farfalla non conta gli anni ma gli istanti: in questi il suo breve tempo le basta”. (Non si tratta di relativizzare l’esistenza secondo il proprio metro o di essere operosi a misura del proprio tempo e messo a disposizione dalla natura. È la consapevolezza di appartenere – ognuno e in ogni cosa – ad un disegno ove tutto è illusione, vanità, se gli si concede significanza in sé medesimo, ma ben altro se ne riconosciamo quale essenza nel particolare della totalità.
Rabindranath Tagore era nato nel 1861 nei pressi di Calcutta e morirà a Sintiniketan (sempre nel Bengala, luogo di meditazione, dove s’era ritirato a vivere e dedicarsi alla pittura). Conobbe e fu amico di Gandhi, condivise il cammino non violento verso l’indipendenza, rifiutò l’alta onorificenza offertagli dal governo inglese dopo che le sue truppe, nel 1919, avevano aperto il fuoco contro la popolazione inerme. Suoi i versi quali inizio dell’inno nazionale indiano e sempre suoi i versi quando, nel 1972, il Bangladesh si proclamò stato autonomo dal Pakisthan. Possiedo – anche se non so più dove sono andati a nascondersi – il dramma l’Ufficio postale (1912) e il saggio Nazionalismo (1923) nell’edizione stile liberty, “rilegature in tela e oro”, Carabba di Lanciano. Più recente (2005) della Guanda una raccolta di poesie d’amore ove mi ero annotato i seguenti versi: “Come una regina – senza parlare sei arrivata come una – vera regina, di nascosto – hai posato i tuoi piedi dentro l’anima”… E i ricordi fluiscono da lontano e sovrani.