Cosa nasconde il lavoro da casa con internet?
Tra i tanti mutamenti che la psicosi collettiva sul “corona virus”, abilmente utilizzata dal potere, sta apportando al nostro sistema di vita vi è quello del lavoro da casa variamente definito “da remoto” o, all’americana, “smart working”: parola che in realtà significa “lavoro intelligente” o “lavoro agile”, mutuando questo termine dalle piccole autovetture da città (la cui denominazione deriva da una Casa automobilistica tedesca collegata con la Mercedes che l’ha brevettata nel 1996: ma ricordiamo che le prime “smart” furono italiane, dalla “Topolino” d’anteguerra alla 500 del 1957).
Di che si tratta è presto detto: complice l’isolamento forzoso a casa, molte imprese hanno continuato ad operare facendo lavorare i propri dipendenti a domicilio mediante il collegamento internet. Essi ricevevano dei documenti da elaborare che li rinviavano all’azienda dopo averli esaminati ed eseguito le operazioni che avevano il compito di fare in base alla propria mansione.
Certamente questa procedura ha avuto il duplice effetto positivo da un lato di non bloccare (almeno in parte) l’attività di certe aziende e dall’altro di consentire al dipendente, bloccato in casa, di avere un impegno che lo tenesse mentalmente in attività e gli evitasse forme di nervosismo, ansia e magari depressione.
Ma ora che l’epidemia del virus sta scemando (soprattutto in molte regioni dove in realtà non è mai stata grave), economisti e giuslavoristi stanno diffondendo l’idea che il lavoro con queste modalità possa divenire un sistema permanente, non più legato ad un’emergenza sanitaria.
Se così fosse, ne dobbiamo però esaminare gli aspetti positivi e quelli negativi i quali, peraltro, non sono i medesimi per le due parti coinvolte.
Certamente per il datore di lavoro, per certe attività abbastanza precostituite, che non necessitano di particolari confronti con altre persone interne od esterne all’azienda, e che non devono essere svolte ricercando e utilizzando dei dati non immediatamente disponibili, trae vantaggio dallo “smart working”. Il primo vantaggio riguarda gli spazi, le spese fisse, le attrezzature d’ufficio, gli archivi di cui può farne in gran parte a meno risparmiando denaro e addossandolo ai lavoratori “da remoto”: risparmio sugli affitti, risparmio sull’energia, risparmio su computer e stampanti, risparmio su cassettiere e armadi: insomma, se si sa organizzare bene quel tipo di lavoro l’imprenditore ne trae dei vantaggi economici, minimi se visti individualmente ma cospicui per una media impresa.
Il lavoratore, invece, deve ovviamente farsi carico di tutte queste cose cominciando ad attrezzare uno spazio nella propria casa per poter lavorare mentre restano a suo carico tutte le altre spese “di postazione” e di gestione che il datore di lavoro risparmia. Inoltre c’è la questione del tempo da dedicare al carico di lavoro che si ha: quando esso è legato solo alla presenza materiale oraria in ufficio, l’attività cessa al momento di chiusura tranne lo svolgimento di lavoro straordinario, che peraltro è pagato in misura maggiore; ma se è svolto in modo autonomo a casa il datore di lavoro potrebbe dargli un carico di lavoro che impiega per essere eseguito più ore di quelle contrattuali.
Già per effetto di questi maggiori oneri per il lavoratore i Sindacati dovrebbero porre queste problematiche nei contratti, per tutelare chi svolge questa modalità di lavoro: per la verità già Paolo Capone, segretario dell’UGL, e Maurizio Landini, della CGIL, si sono già espressi al riguardo.
Ma nei confronti del lavoratore ci sono altri due aspetti da prendere in considerazione che potrebbero causare conseguenze giuridiche e psicologiche.
Il primo riguarda la configurazione giuridica del rapporto: se quel tipo di lavoro si perpetua, e se il datore di lavoro è abile a gestirlo, egli può trasformarlo – magari con qualche apparente vantaggio economico iniziale – in un rapporto di lavoro autonomo, sull’esempio dei vecchi “co.co.co.” (collaboratori coordinati e continuativi) con tutti gli inconvenienti del caso.
L’altro aspetto è di tipo psicologico: se il lavoratore non ha più lo stimolo di recarsi ogni giorno al lavoro, magari subendo i disturbi del pendolarismo; se non ha un suo posto di lavoro visibile; se non ha il confronto quotidiano, amichevole o conflittuale che sia, con i propri colleghi e i propri dirigenti, diventerà lentamente un asociale. Chi ha lavorato in un’azienda sa quanto è importante sentirsi di avere un ruolo nella società avendo una postazione individuale di lavoro, e quanto sia stimolante tornare a casa, rivedere mogli e figli, cenare in famiglia, distrarsi: insomma, porre uno stacco psicologico tra la parte della giornata dedicata al lavoro e quella dedicata alla propria casa e alla propria famiglia. Sembra un aspetto superficiale, ma invece è assai importante per l’equilibrio della propria vita.
Infine, vi è l’aspetto sindacale. Lo “smart working” si aggiunge alle altre forme di lavoro create nei decenni di impostazione liberista del diritto: lavoro interinale o in affitto, collaboratori coordinati e continuati, appalti, e via dicendo. Talché all’interno dell’impresa vi sono fianco a fianco persone che svolgono lo stesso lavoro avendo figure giuridiche diverse, e all’esterno vi sono i vari tipi di collaboratori più o meno autonomi e quelli addetti allo “smart working”. In tal modo, il liberismo realizza due obiettivi: la divisione parcellizzata degli interessi dei lavoratori che quindi non si sentono più una comunità, e non agiscono più insieme; l’indifferenza di tutti coloro che collaborano con varie modalità allo sviluppo economico e prospettive produttive dell’azienda la quale rimane affidata solo ai misteriosi e variabili progetti (più finanziari che produttivi) del cosiddetto “ceo capitalism”, il capitalismo degli amministratori delegati (“chief executive officer”).
Certamente non è possibile tornare all’impostazione fordista dell’impresa dove tutti, dal portiere al consigliere di amministrazione, dalla donna delle pulizie al programmatore, dall’operaio al contabile si sentono uniti dall’appartenenza all’azienda che vedevano quasi come una loro “patria”: però si può ovviare a questa tendenza applicando finalmente l’articolo 46 della Costituzione con la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda intendendo per lavoratori tutti i diversi collaboratori che per essa operano.
Solo così si ricostruisce l’unità organica di quella che può essere considerata (mutuando dai termini militari) “una divisione” dell’esercito produttivo della Nazione, e dare nello stesso tempo una coscienza civica e sociale ai lavoratori.