Diritto alla (D)istruzione pubblica

 

Diritto alla (D)istruzione pubblica

Settant’anni di Repubblica con le sinistre al timone dell’istruzione pubblica non erano riuscite a fare quanto sta compiendo l’attuale Ministero dell’Istruzione. Mi riferisco a tutto il dicastero, e non al Ministro singolo che, poverina, non ha le capacità e la dignità per occupare il posto che le è stato affidato come già più volte ha dimostrato pubblicamente, perché le riforme scolastiche, i programmi, le linee guida, i corsi e via dicendo vengono redatti da una numerosa squadra di “esperti”, i quali, eterodiretti da interessi transnazionali, si adoperano in lunghe discussioni filosofiche per produrre, di fatto, il nulla più annullante del nulla.

O meglio, bisogna essere sinceri: l’Italia è da sempre la maestra indiscussa della pedagogia e della metodologia didattica. Sin dai tempi della Roma imperiale, erede della paideia greca, gli italici hanno brillato per lungimiranza nella formazione degli scolari, promuovendo una crescita integrale della persona, dal punto di vista dei contenuti fino ai valori morali che trovano la loro massima espressione nella vita civile, nella vita politica. Il Medioevo cristiano ha portato all’apice dello sviluppo la ricchezza accumulata dalle conquiste imperiali, dando vita alla configurazione ben nota del trivio e del quadrivio, promuovendo il progresso delle arti liberali e scientifiche, salvando dalla distruzione le opere degli antichi e consolidando le basi pedagogiche di quella imponente riflessione che giungerà nei secoli successivi. L’Italia ha continuato a fare da condottiera anche nei secoli più recenti, generando pedagogisti e filosofi dell’educazione che ancora oggi vengono studiati e approfonditi come nessun altro al mondo, veri pionieri delle scienze della formazione, i primi a mettere in risalto le qualità ontologiche e antropologiche della persona, dello studente, visto e considerato nella sua ricchezza unica ed irripetibile, come figlio della Madrepatria capace di rendere il mondo un posto migliore e di conseguire la piena realizzazione della propria natura e il bene comune della società intera grazie, proprio, alla sua educazione ricevuta.

Quando Giovanni Gentile, circa un secolo fa, lanciò la riforma che ancora oggi porta il suo nome, aveva ben chiara quale era la enorme responsabilità che proveniva dalla millenaria Tradizione delle nostre terre e dei nostri popoli, ed ancor di più intravedeva l’urgenza di una istruzione che compisse integralmente la formazione dell’uomo e del cittadino. Nella sua impostazione pedagogica, il bambino è un dono alla famiglia e alla nazione tutta, è un potenziale di incalcolabile valore, le cui doti e peculiarità meritano di essere poste al centro della formazione, la quale deve avvenire in maniera continuativa fino al raggiungimento dell’obiettivo di realizzazione personale e sociale, apportando così un bene alla sua vita e a quella della comunità. Riprendendo l’ideale classico, ribadito anche dalla pedagogia cristiana, è lo Stato che genera i suoi figli e li educa, così che a loro volta essi possano costituire lo Stato stesso; lo Stato è antecedente al cittadino perché l’uno è antecedente al molteplice, dunque una primarietà di dignità, non temporale, riguardante le specie e non il caso specifico. Così facendo, la pedagogia viene rivestita di una dignità enorme, divenendo quell’arte, e non solo una scienza, del far crescere e realizzare pienamente la persona, così da migliorare la società. E proprio in questa dimensione comunitaria la persona viene a sua volta perfezionata. Il bambino diventa uomo, e per fare ciò è indispensabile fornire la migliore e più attenta qualità dell’insegnamento, perché ciò che di bene viene dato adesso, sarà bene restituito un domani.

Una sintesi dialettica che, oggigiorno, appare una utopia lontana; una concezione che successivamente verrà ostracizzata perché troppo “idealista” e, diranno, non attenta ai bisogni dell’infanzia. Così facendo, una volta sopraggiunta la tanto pretesa Repubblica Italiana, ecco che le riforme scolastiche hanno portato, colpo dopo colpo, allo smantellamento sistematico e programmato (smettano di leggere l’articolo coloro che pensano che certe cose vengano fatte “per caso”) della forma ideale dell’educazione. Ma anche dell’educatore. Nella dimensione educativa odierna, non esiste più alcun punto di riferimento ideale, nessun collegamento con un modello virtuoso, che richiami pertanto alla formazione-per-il-bene della persona, alla integralità della persona umana, nella sua dignità fattuale. L’istruzione contemporanea è datità del capriccio, ove è il pedagogo a dover andare dietro ai piagnistei dello scolaro, con una forma educativa che si è piegata sempre di più alle logiche del mondo, seguendone il declino, anzi diventandone addirittura megafono promotore come, ad esempio, per quanto riguarda la globalizzazione e il disprezzo dell’identità nazionale.

Riforma dopo riforma, dicevamo, sono stati sostituiti i valori dell’essere con il soddisfacimento dei bisogni dell’avere. La techné ha preso il posto delle scienze dello spirito, trasformando gli studenti in matricole un tanto al chilo, anzi all’euro, visto che si contano più quanto ci costano i nostri scolari piuttosto che quando dovremmo spendere per renderli migliori. L’animo umano non viene più considerato quale elemento centrale dell’essere, e la sua fenomenologia deve ridursi ad una serie di “competenze” da acquisire in vista di un ipotetico, tanto millantato ma poi del tutto disatteso, inserimento nel mondo del lavoro. Studiare, quindi, non è più anzitutto realizzazione della persona, diritto nel senso vero del termine in quanto espressione in compimento della dignità essenziale del soggetto, bensì è una tappa obbligata da compiere, un quid senza il quale non si ha valore nella post-modernità del consumo globalizzato.

Dal canto loro, gli insegnanti, il cui lavoro è un’arte di indicibile bellezza e di inestimabile valore, sono ridotti ad automi del sistema ministeriale, costretti a procurarsi persino la carta igienica per le classi, a seguire estenuanti corsi di formazione a pagamento per aggiornarsi, senza però avere una crescita fattuale personale e, di conseguenza, applicabile nel mondo della scuola. Per di più, molti si vedono costretti ad un eterno precariato, giustificato dalla ridondante litania che suona “non ci sono fondi”.

Ecco che persino il mestiere che insegna la vita viene riduzionisticamente portato ad una funzione operaia nella catena di montaggio delle menti assoggettate al pensiero unico. Perché sì, quello che ormai nella scuola viene da anni promosso è un pensiero che segue un’unica direttiva, e guai ai disertori. In barba a tante belle parole di concetti come pensiero divergente, riflessione critica, dubbio, autonomia della ragione ed altre nobilissime definizioni, la intellighenzia ministeriale rivede i programmi e i manuali in preda ad un isterismo compulsivo, quasi avessero a sfuggirgli degli elementi antropologici che, sia mai, potessero portare alla vera libertà della persona e, quindi, alla sua autentica felicità.

Il diktat si nasconde dietro la maschera (oggi potremmo dire mascherina) della libertà d’opinione e della formazione permanente, ma in realtà ciò che impone categoricamente è l’annichilimento dello studente, a seguito del preventivo esaurimento dell’insegnante, in modo da poterne castrare la creatività e l’espressione della bellezza unica ed irripetibile di cui è portatore, così da produrre in serie un’altra pecorella per l’ovile, pronta a belare in adulazione al padrone-macellaio che all’occorrenza le tirerà il collo.

L’apoteosi di questo sistema perverso e corrotto, che più che una riforma ulteriore meriterebbe una tabula rasa, lo stiamo vivendo in queste settimane: la didattica è stata definitivamente assoggettata alle logiche illogiche del (dis)educazione tecnoliquida. In barba ad anni di ricerche neuroscientifiche e psicologiche che dimostrano e ribadiscono con forza che i supporti modulati digitali devastano i processi cognitivi, quindi dell’apprendimento, soprattutto dei bambini, l’imposizione di questi marchingegni tecnologici bandisce ulteriormente la dimensione umana e relazionale che è propria dell’essere umano, che è essere sociale e relazionale sempre, interponendo più che un distanziamento sociale un vero e proprio distanziamento ontologico-cognitivo, nel senso che dissocia l’espressione e il progresso dell’essere-persona e la sua comunicabilità, che va ad esaurirsi in una serie di click davanti ad una videocamera. Per non parlare dei criteri docimologici, già defraudati di ogni istanza normativa morale, per cui vedremo passare l’anno scolastico studenti del tutto immeritevoli o drammaticamente lacunosi e, quindi, fatti alla mano non pronti per il passo successivo. Solo un criminale scellerato darebbe al proprio figlio una vipera da mangiare al posto di un boccone del suo cibo preferito. E dove le dinamiche relazionali estreme come il bullismo, le violenze di varia categoria, la rottura critica del rapporto docente-discente erano già complicate, ora vengono consacrate come legittime e da tralasciare, perché non considerabili in una situazione extra-ordinaria come quella imposta. Inutile poi parlare dei drammi che gli insegnanti, sobbarcati di ulteriore lavoro, stanno vivendo; o anche della complicata realtà di genitori e parenti costretti a supplire all’azione diretta dell’insegnante. Il caos educativo, in parole povere.

Siamo arrivati, finalmente, a rendere un diritto la distruzione della istruzione pubblica. Se prima quel che non andava veniva lasciato crescere assieme a ciò che di buono persisteva seppur con fatica, questo tempo di sperimentazione sociale ingegneristicamente ben architettato ha permesso di realizzare in poche settimane quella radicale svolta che tanto i lor signori attendevano. Adesso il Ministero dell’Istruzione potrà diventare succursale dell’orwelliano Ministero della Verità, che detta l’unica narrazione dei fatti e forgia le menti per il mondo del terrore, mentre il Grande Fratello osserva compiaciuto e si prepara a regnare osannato dai suoi studenti.

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