La terra della sera nel tempo dell’oblio

 

La terra della sera nel tempo dell’oblio

Benedetto Croce, neutralista convinto, in polemica con gli interventisti smaniosi di entrare in guerra contro gli Imperi Centrali, ebbe a scrivere come vi fosse una Germania che non si potesse non amare – pensando, in particolare, a Goethe. E questa sua posizione si conservò tale sia quando il Regno d’Italia prese le armi il 24 maggio del ’15 sia negli anni successivi. Solo nel 1935 trasformò questo amore al passato in polemica con l’avvento al potere del Nazismo e con le significative correnti culturali emerse – ad esempio contro le tesi espresse da Oswald Spengler o dal filosofo Martin Heidegger. Anch’io ho amato la Germania fin da adolescente quando emozioni eco rimandi tante cognizioni mi erano ancora ignote. Penso, ad esempio, ai quarant’anni da professore, quando – tramite il filosofo Leibnitz – la “grande” filosofia s’impose e con Kant e con l’Idealismo. Cito soltanto, a mo’ di esemplificazione, l’opera di Karl Loewith Da Hegel a Nietzsche che mia madre mi fece pervenire nel carcere di Regina Coeli, inizio anni ’70. E i miei “amici”, quelli che appartengono allo spazio tra “l’Essere e il Nulla”,  sono, non a caso, Max Stirner, Nietzsche e Heidegger.                                                                                                            

La Germania che ho amato – ed amo nel ricordo che non tradisce – mi si mostrò agli inizi, sulla riviera adriatica, sotto la forma di giovani donne in cerca di sole e la notte, dietro i capanni, a sfiorare la curva dei seni e l’incavo delle cosce con mano esitante. E furono un tirocinio quasi, una prova d’intenti, viatico e premessa di un giorno di fine estate, a Francoforte, ove il destino e non credo il caso volle raccontare a me solo una storia vissuta oltre la misura contingente e iniqua del tempo.                                         

Poi vennero i ragazzini della HJ con il Panzerfaust fra le macerie di Berlino, aprile ’45, a difendere non tanto il bunker dove Hitler consumava gli ultimi giorni – e con loro un pugno di combattenti francesi scandinavi spagnoli di quell’esercito, le Waffen-SS, premessa di un’Europa altra ed alta. A questa convinzione dava autorevolezza Léon Degrelle che, in esilio in Spagna, invitava a non arrendersi ad una sconfitta epocale. A metà degli anni ’60 I leoni morti di Saint-Paulien divenne imprescindibile per chi aveva raccolto il mito della Finis Europae. Con una copia nel tascone dell’eskimo volli passare oltre il muro di Berlino e ritrovare i luoghi appunto che venivano descritti nel libro. Fascino di una città ove la parte comunista evocava una cappa mefitica di grigio di tristezza ma anche atmosfere ferrigne e prussiane. Nulla o quasi, però, era eco della memoria. Quando vi ritornai da insegnante con la scuola e per altre due volte per mio conto, anche la ex zona dell’Est pagava il prezzo della “libertà” schiava del consumo e della globalizzazione.                                                                                         

Eppure, nonostante l’egemonia economica e l’attuale gabbia pandemica, io rimango legato alla mente e al cuore che mi ricordano l’Abendsland, quella terra della sera (per dirla con il filosofo Heidegger), “superamento di quel trovarsi senza patria in cui non soltanto gli uomini ma l’essenza stessa dell’uomo sta vagando” – forse perché in dono la luce del tramonto mostra le tracce lasciate dall’”Essere nel tempo dell’oblio”. Il viandante, essere contro, oltre come ci educava Nietzsche a considerare la nostra condizione. Disperazione follia passo lieve di danza…

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