Il rosa e il nero

 

Il rosa e il nero

Stendhal non c’entra. E neppure la squadra del Palermo che langue nei sottoscala del Calcio. Il rosa e il nero sono i colori di un incantesimo: quelli della nostra specie che dilaga nei territori della psichiatria politica dopo avere abbandonato quelli della politica ‘tout court’.            

In realtà, c’é stata una precisa scelta di campo. Le dimensioni del progetto – sostituire alla comunità dei cittadini la moltitudine acefala dei sudditi, tutti in fila per  tre col resto di due – hanno comportato che il paradigma dei conflitti – o, se volete, delle dinamiche sociali – si spostasse con una brusca torsione dall’asse destra/ sinistra all’asse sotto-sopra, sul quale si sono innestati  dei dualismi farlocchi. Prove tecniche di razzismo, ma  a parti invertite: la rivisitazione di un vecchio spartito, ma con la novità che é oggi il nero che va a caccia del bianco, risparmiandosi anche la fatica di  coprirsi con un cappuccio. Nello Zimbabwe (ex Rhodesia) e nel Sudafrica – che una volta erano le declinazioni spinte dell’apartheid – il bianco può ritrovarsi, se guarda altrove, con una lama in mezzo alle scapole. Ed é prassi: quella che, per effetto delle recidive, divenute croniche, non impressiona nessuno.

La genealogia di queste storie che ritornano d’attualità, dopo un lungo letargo, ma con gli interpreti che si sono scambiati il copione, non é fatta di settimane o di mesi. I sentimenti di colpa che ora tappezzano i territori della psichiatria politica spuntarono, come listarelle di muffa, tre le strofe di una canzone del 1967, in cui un certo Ferrer esprimeva, sconsolato ed inconsolabile, il desiderio di avere ‘la pelle nera’. Ultrasuoni. Infrarossi. Minutaglia. L’aruspice maia che ricava il futuro dal fegato di una mosca.

La pubblicità (ve la ricordate, e ne siete ancora commossi?) dell’united colors of Benetton fu accolta come un innocuo tributo alla pace razziale, ma nascondeva i calcoli del negriero furbo. Quello che strappava i giocattoli dalle mani dei bambini del Bangladesh per poi farli avvizzire nelle filande. Quello che aumentava a dismisura il proprio potere contrattuale anche nei confronti dei propri dipendenti bianchi, potendo disporre della manodopera colored che non costava ed non costa niente. Ciò che sembrava un sorriso si é poi rivelatio il ghigno dell”Arancia Meccanica’.

Niente é come appare: soprattutto adesso che con la moltiplicazione dei media e con la loro concentrazione in gruppi sempre più ristretti, la realtà e la verità sono di fatto diventate articoli di lusso, materia per iniziati. Così, mentre volano basse le note dell’inno di Mameli, deturpato dall’ugola nera, c’é immacabilmente qualcuno che insiste sulle ‘quote rosa’, immaginando – o facendo finta di immaginare –  che ci sia da qualche parte un metodo per ottenere grandi risultati dall’ibridazione delle leggi della democrazia con quelle dell’insiemistica. Grandi, no: solo un grande disastro. Esse sono, infatti, il prototipo di un’organizzazione sociale di cui ognuno, nel riconoscersi come membro di una speciale categoria, – sia essa quella dei sani oppure dei malati, dei brutti piuttosto che degli adoni (ad imitazione di una trasmissione televisiva chiamata ‘Ciao Darwin’) – chiederà di divenire proprietario di una quota-parte, forse gialla, forse bluette, forse fucsia: sul colore ci si mette d’accordo. 

Il racconto di un sistema politico concepito per riportare ordine in una società puntiforme, pulviscolare, disgregata, come la nostra di oggi, non può non concludersi con la descrizione di una grande massa di schiavi che si offre alla vista col culo per aria, in una postura indecente, e non può non essere annunciata da un telegrafico trafiletto: all’indomani del caos.      

           

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